#07 Altrove

Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.
Lao Tzu

Morgan – Altrove

Questa settimana i nostri punti di partenza sono la foto di Silvia Letizia – che vedete in copertina – e la canzone di un lettore che ama definirsi educatore professionale e rapper di strada.
Augurandoci che vi piaccia almeno la metà di quanto è piaciuta a noi, buon ascolto!

Cactus

Vino – Immobile
Musica, testo e scratch di Andrea Vignono
Mixaggio e mastering a cura di RDF, Torino

Il pensiero di mollare tutto, in questo momento difficile, credo sia passato per la mente un po’ a tutti.
Mollare tutto nel senso di abbandonare le proprie responsabilità, smettere di rispondere a telefono, non alzarsi dal letto, lasciarsi andare di fronte a una realtà che ogni mattino rimarca la nostra impotenza.
Non importa quanto siamo bravi e attenti o rispettiamo le regole: le persone continuano a morire, il virus rallenta ma non sparisce, le norme di distanziamento sociale vengono prolungate.

Anche io mi confronto quasi tutti i giorni con questo desiderio: avrei un sacco voglia di lasciar perdere tutto, annullare gli appuntamenti, spegnere il telefono e rimanere a letto.
Poi penso ai miei pazienti e mi dico che non posso farlo.
Ciò nonostante, quando piangendo su Whatsapp o su Skype mi dicono che non ce la fanno più e che non riescono ad alzarsi dal letto, anche a me viene da piangere perché mi sento esattamente come loro quando in teoria dovrei poter fare qualcosa per aiutarli.

E invece no. È difficile questa volta perché sono in una condizione di sofferenza anche io: sento di non poter fare uso dei miei strumenti abituali e mi limito ad accogliere questi sentimenti distruttivi che in questo periodo prendono tutto lo spazio della terapia.
Mi sento impotente e inutile, mi sento non all’altezza del lavoro che faccio: penso per ore al fatto che non sono ancora abbastanza solida per poter aiutare gli altri, che ho ancora tanto lavoro da fare su me stessa.

Poi l’altro giorno sono incappata in questa breve lettera di Nancy McWilliams (una delle più grandi psicoanaliste viventi) in cui racconta come anche per lei sia una sfida lavorare in questo periodo e confrontarsi con la frustrazione del non riuscire ad aiutare i pazienti né ad alleviare il loro dolore in questo momento.

[…] tutto ciò che possiamo fare come terapeuti, è di essere onesti rispetto a quanto le cose siano emotivamente difficili in questo momento. La principale consolazione che possiamo offrire ai nostri pazienti, persino in tempo di quarantena, è un’intima connessione con qualcuno che rinunci alle distorsioni difensive di una terrificante, dolorosa realtà.

Mi sono commossa, forse vale la pena non mollare tutto.

“Mi piacerebbe rassicurarla e dirle che andrà tutto bene, dirle che passerà tutto tra poco e saremo tutti felici, ma la prenderei in giro e non voglio farlo”, è ciò che mi sono ritrovata più spesso a dire in questo periodo ai pazienti.
Quando lo dico mi sento crudele, ma in realtà mettere sul tavolo la sofferenza reciproca ci permette di incontrarci su un livello estremamente intimo, che forse in condizioni “normali” non raggiungeremmo.

Ci sono, ci siamo e per un’altra settimana ancora non molliamo.

Z.

Timeout*
 
Sto passeggiando con alcuni pazienti della struttura, metà marzo, qualche breve uscita ancora è concessa. A maggior ragione per chi vive una condizione di fragilità. Siamo nel verde, tra i campi.
Camminiamo assieme, ma a distanza. La manteniamo ormai sia dentro sia fuori dalla struttura.
Qualche ragazzo parlotta, qualcuno scherza, qualcun altro si avvicina ad un cancello per salutare un cane.
L. si avvicina un po’ di più. “Sai che da quando è iniziata la quarantena mi sembra di stare meglio?”.
Continuiamo a camminare. Sento che sta per aggiungere qualcos’altro. “È dura stare chiuso in struttura, mi dispiace non poter tornare a casa, ma al tempo stesso posso non sentirmi in colpa se non lo faccio. Non è responsabilità mia. Sono obbligato a non tornare.”
Tutte le volte che L. torna a casa, in condizioni “pre-pandemia” i suoi sintomi tornano a manifestarsi, ma non l’ho mai visto rinunciare o mettere in dubbio questi rientri programmati.

Penso a ruoli che L. ricopre ogni qual volta torna a casa: figlio, nella relazione con la madre; compagno nella relazione con la moglie; fratello nella relazione con la sorella.
Penso a quanto sia fonte di frustrazione per lui non aderire alle aspettative altrui e alle proprie. Figlio che ha procurato e procura preoccupazioni alla madre anziana e malata; compagno che è stato poco presente e che adesso vive altrove; fratello che ha lasciato alla sorella la gestione della madre malata, necessitando lui di cure e di accudimento, non riuscendo ad elargirle. 
Sono ruoli consolidati, cristallizzati, che si ripetono in modo implicito e coattivo.

Ma adesso è concessa una pausa.
E questa pausa non ha nulla a che fare con il tirarsi indietro di L., il suo non assumersi le proprie responsabilità, il suo non farcela. C’è un potere più alto che dice “fermi tutti”, “nessuno si muova”.
E allora L. può non tornare a casa, non è una sua mancanza, non è una sua responsabilità.

Stacco dal turno, percorro le strade vuote e silenziose della città e mi interrogo su questo timeout, che non siamo stati noi a chiamare, ma che ci troviamo a vivere.
Se diminuiscono gli stimoli posso osservarmi con maggiore chiarezza? Se il rumore si attutisce posso sentire dei suoni che prima erano sovrastati da altri?
Forse le scarpe che indossavo ieri vorrò indossarle anche domani. O magari no. Posso prendermi questo tempo per camminare scalza?

* “un breve periodo di tempo durante la partita in cui i giocatori interrompono il gioco, per riposare, pianificare cosa faranno dopo (Cambridge Dictionary)”

Q

Salvador Dalì – L’aurora, 1948