Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.
Lao Tzu
Questa settimana i nostri punti di partenza sono la foto di Silvia Letizia – che vedete in copertina – e la canzone di un lettore che ama definirsi educatore professionale e rapper di strada.
Augurandoci che vi piaccia almeno la metà di quanto è piaciuta a noi, buon ascolto!
Cactus
Il pensiero di mollare tutto, in questo momento difficile, credo sia passato per la mente un po’ a tutti.
Mollare tutto nel senso di abbandonare le proprie responsabilità, smettere di rispondere a telefono, non alzarsi dal letto, lasciarsi andare di fronte a una realtà che ogni mattino rimarca la nostra impotenza.
Non importa quanto siamo bravi e attenti o rispettiamo le regole: le persone continuano a morire, il virus rallenta ma non sparisce, le norme di distanziamento sociale vengono prolungate.
Anche io mi confronto quasi tutti i giorni con questo desiderio: avrei un sacco voglia di lasciar perdere tutto, annullare gli appuntamenti, spegnere il telefono e rimanere a letto.
Poi penso ai miei pazienti e mi dico che non posso farlo.
Ciò nonostante, quando piangendo su Whatsapp o su Skype mi dicono che non ce la fanno più e che non riescono ad alzarsi dal letto, anche a me viene da piangere perché mi sento esattamente come loro quando in teoria dovrei poter fare qualcosa per aiutarli.
E invece no. È difficile questa volta perché sono in una condizione di sofferenza anche io: sento di non poter fare uso dei miei strumenti abituali e mi limito ad accogliere questi sentimenti distruttivi che in questo periodo prendono tutto lo spazio della terapia.
Mi sento impotente e inutile, mi sento non all’altezza del lavoro che faccio: penso per ore al fatto che non sono ancora abbastanza solida per poter aiutare gli altri, che ho ancora tanto lavoro da fare su me stessa.
Poi l’altro giorno sono incappata in questa breve lettera di Nancy McWilliams (una delle più grandi psicoanaliste viventi) in cui racconta come anche per lei sia una sfida lavorare in questo periodo e confrontarsi con la frustrazione del non riuscire ad aiutare i pazienti né ad alleviare il loro dolore in questo momento.
[…] tutto ciò che possiamo fare come terapeuti, è di essere onesti rispetto a quanto le cose siano emotivamente difficili in questo momento. La principale consolazione che possiamo offrire ai nostri pazienti, persino in tempo di quarantena, è un’intima connessione con qualcuno che rinunci alle distorsioni difensive di una terrificante, dolorosa realtà.
Mi sono commossa, forse vale la pena non mollare tutto.
“Mi piacerebbe rassicurarla e dirle che andrà tutto bene, dirle che passerà tutto tra poco e saremo tutti felici, ma la prenderei in giro e non voglio farlo”, è ciò che mi sono ritrovata più spesso a dire in questo periodo ai pazienti.
Quando lo dico mi sento crudele, ma in realtà mettere sul tavolo la sofferenza reciproca ci permette di incontrarci su un livello estremamente intimo, che forse in condizioni “normali” non raggiungeremmo.
Ci sono, ci siamo e per un’altra settimana ancora non molliamo.
Z.
1977. Ettore Scola dirige il candidato Oscar Marcello Mastroianni e una sublime Sofia Loren. Nella Roma di fine anni ’30 l’incontro tra Antonietta e Gabriele, due ruoli così differenti eppure così cristallizzati.
A volte il cambiamento resta solo un desiderio.
E dura solo un attimo.
Una giornata particolare – Ettore Scola
Timeout*
Sto passeggiando con alcuni pazienti della struttura, metà marzo, qualche breve uscita ancora è concessa. A maggior ragione per chi vive una condizione di fragilità. Siamo nel verde, tra i campi.
Camminiamo assieme, ma a distanza. La manteniamo ormai sia dentro sia fuori dalla struttura.
Qualche ragazzo parlotta, qualcuno scherza, qualcun altro si avvicina ad un cancello per salutare un cane.
L. si avvicina un po’ di più. “Sai che da quando è iniziata la quarantena mi sembra di stare meglio?”.
Continuiamo a camminare. Sento che sta per aggiungere qualcos’altro. “È dura stare chiuso in struttura, mi dispiace non poter tornare a casa, ma al tempo stesso posso non sentirmi in colpa se non lo faccio. Non è responsabilità mia. Sono obbligato a non tornare.”
Tutte le volte che L. torna a casa, in condizioni “pre-pandemia” i suoi sintomi tornano a manifestarsi, ma non l’ho mai visto rinunciare o mettere in dubbio questi rientri programmati.
Penso a ruoli che L. ricopre ogni qual volta torna a casa: figlio, nella relazione con la madre; compagno nella relazione con la moglie; fratello nella relazione con la sorella.
Penso a quanto sia fonte di frustrazione per lui non aderire alle aspettative altrui e alle proprie. Figlio che ha procurato e procura preoccupazioni alla madre anziana e malata; compagno che è stato poco presente e che adesso vive altrove; fratello che ha lasciato alla sorella la gestione della madre malata, necessitando lui di cure e di accudimento, non riuscendo ad elargirle.
Sono ruoli consolidati, cristallizzati, che si ripetono in modo implicito e coattivo.
Ma adesso è concessa una pausa.
E questa pausa non ha nulla a che fare con il tirarsi indietro di L., il suo non assumersi le proprie responsabilità, il suo non farcela. C’è un potere più alto che dice “fermi tutti”, “nessuno si muova”.
E allora L. può non tornare a casa, non è una sua mancanza, non è una sua responsabilità.
Stacco dal turno, percorro le strade vuote e silenziose della città e mi interrogo su questo timeout, che non siamo stati noi a chiamare, ma che ci troviamo a vivere.
Se diminuiscono gli stimoli posso osservarmi con maggiore chiarezza? Se il rumore si attutisce posso sentire dei suoni che prima erano sovrastati da altri?
Forse le scarpe che indossavo ieri vorrò indossarle anche domani. O magari no. Posso prendermi questo tempo per camminare scalza?
* “un breve periodo di tempo durante la partita in cui i giocatori interrompono il gioco, per riposare, pianificare cosa faranno dopo (Cambridge Dictionary)”
Q
Nei miei studi psicologici ho incontrato spesso, specie negli ultimi anni, la parola resilienza: la capacità di far fronte alle difficoltà.
Non solo resistere, ma anche riorganizzare il già conosciuto, trasformando la perdita in stimolo per battere nuove strade.
Lo stesso concetto è espresso in modo secondo me più efficace e puntuale dal verso di una celebre canzone, che è una vera poesia: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.
Non saprei se in questi giorni siamo immersi nel letame o se siamo solo messi a confronto con un limite. Ma ho imparato che avere un limite non è sempre un male.
È un muro ed è snervante averci a che fare: io ad esempio sono solita mettermici davanti e lagnarmi. Umano, direte (se siete buoni con me). Sì, umano, lecito, comprensibile. Ma poi? Poi – se riesco a scrollarmi di dosso tutta l’impotenza che solo ventitré anni vissuti in Sicilia sanno darti – a un certo punto faccio un salto.
Uno psicanalista che amo e odio, un certo Wilfred Bion diceva che dalla frustrazione nasce il pensiero…e – caspita – cosa c’è di più frustrante che rimanere fra quattro mura per settimane e settimane?
Di certo, rimanere fra quattro mura mi ha fatto capire quanto la mia compagnia possa essere piacevole. (Oh).
Di quanto io sia capace, con un po’ di impegno, di prendere gli schemi di sempre e negoziare un po’ …per avere poi più chiaro quali siano i miei desideri, i miei bisogni, i miei limiti, i miei progetti.
Queste quattro mura, le restrizioni, la solitudine sembrano insomma anche un invito a ridefinirci, a rivedere i nostri schemi, le nostre priorità. Fermare il flusso, litigare col muro e trovare nuove soluzioni.
Su Prendiamola con Filosofia, golosissimo evento di dirette streaming a staffetta di 12 ore (organizzato da TLON e Piano B) – una delle menti più generose di questa epoca, Franco Arminio, parla del periodo come un momento che ci invita a rigenerare il mondo. Invita a creare una nuova alleanza, un nuovo pensiero che ci aiuti a ricongiungerci alla natura e imparare a guardarla.
Dice (“dobbiamo capire che…”): il mondo è fatto di foglie, di nuvole e di esseri umani
Un recupero di umanità, semplicità e di pace con piante e animali.
Un invito “dal nostro appartamento, ad essere golosi di tornare sotto gli alberi, sotto le nuvole”.
Un’altra mente generosa, Alessandro Baricco, in un articolo uscito su «La Repubblica» il 26 marzo scorso, illumina e riassume con poche parole il pensiero che cerco di formulare sulla potenzialità del bizzarro momento che stiamo vivendo:
Certe cose cambiano con un movimento di torsione violento, che fa male, e che non pensavi di poter fare.Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare. Lo choc è arrivato, la crisi la stiamo soffrendo, il terremoto non è ancora passato. I pezzi ci sono tutti, sulla scacchiera, fanno tutti male, ma ci sono: c’è una partita che ci aspetta da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di giocarla.
Quelpostoche