Il giorno che temiamo come ultimo è soltanto il nostro compleanno per l’eternità.
Seneca
L’immagine di copertina di questa settimana fa parte di Before I Die, un’opera d’arte interattiva creata da Candy Chang dopo la morte di una persona amata. L’idea a oggi è diffusa in ogni parte del mondo ed è aperta a tutti. Un’occasione per riflettere sul senso della perdita e dare valore alla vita.
Il desiderio di condivisione e dialogo con i nostri lettori è nel cuore di Cactus dalla sua nascita: questa settimana lo spunto ce lo fornisce una nostra lettrice, che lavora come addetta alle camere mortuarie all’interno di un ospedale pubblico.
Lunedì 23/03/2020
La prima volta che sono entrata in un reparto Covid-19 era sabato 14 Marzo.
Cazzo sembra di essere in un film di guerra, unico pensiero passato nella mia mente mentre passavo 10 minuti in quel corridoio, stretto e lungo, con due dottoresse e un dottore, irriconoscibili sotto queste insopportabili tute.
Oggi, sono passati 10 giorni ed entrare in reparti Covid-19 – sì, ormai diventato plurale -, dove tra colleghi non riusciamo più a riconoscerci sotto tute, mascherine e occhiali, sembra quasi – ripeto quasi – normalità.
Da un po’ di anni svolgo questo lavoro ed effettivamente mi rendo conto che non sia “per tutti”: alcune volte mi sento una persona fin troppo fredda e anche un po’ insensibile.
I numeri ora aumentano e mi ritrovo a trattare tutti i defunti come “infetti”.
Cosa vuol dire? Vuol dire che non possono essere svestiti, ma devono rimanere negli indumenti che avevano quando è avvenuto il decesso, devono essere avvolti nelle stesse lenzuola, mettere sul viso una mascherina chirurgica e il lenzuolo in cui sono avvolti deve essere imbevuto di sostanza antisettica.
E poi? Niente funerale, niente benedizione, niente visita dei familiari ma vengono messi all’interno del feretro, anche esso con determinate caratteristiche.
Mi dicono al lavoro che dai tempi dell’AIDS non si svolgevano questi trattamenti.
1,2,3,4… cavolo non c’è più posto…
E allora inizi ad usare i sacchi da recupero e ti ritrovi nuovamente in una scena che avresti voluto vedere solo nei film.
Tuta, copri scarpe, mascherina, occhiali, cappuccio e doppi guanti.
Così spieghi ai parenti per telefono che non potranno più rivedere il proprio nonno, la zia oppure la madre… eh sì, lì è proprio una merda.
Chiudo il sacco, appiccico sopra il nome e spero solo di non trovarmi in prima persona a vivere una situazione così aberrante.
Mi svesto, mi disinfetto, mi chiudo la porta dell’obitorio alle spalle e riesco a far rimanere quasi tutta la merda lì dentro.
Cazzo, sono a cucinare e a preparare la cena, sì, sono una persona che riesce a distaccare lavoro e vita privata, ma non metto in dubbio che questa esperienza porterà a tutti dei cambiamenti e anche a me. Nessuno cancellerà le immagini che tutt’ora vivo.
Ora guardo il mio nipotino dal telefono, faccio videochiamate con la mia famiglia e comunque – fortunatamente – la vita va avanti.
Isadora
“Prima di tornare a una specie di normalità i morti dovranno essere sepolti anche in senso metaforico”, l’articolo di Eva Pattis Zoja su Doppiozero offre uno spunto di riflessione sul dare significato alla morte in questo momento storico.
Sono nel mezzo della millesima giornata di quarantena, stanca, esausta, incapace di accedere a qualunque forma di pensiero che vada oltre il: devo produrre, devo lavorare, DEVO.
Fortuna che anni di analisi mi hanno permesso di riconoscere quantomeno questo e capisco: sono satura. Piena. Piena di cose futili che mi attraversano senza possibilità di operare un filtro: tutto assume lo stesso valore. La morte di un caro vicino di casa diventa importante quanto guardare l’oroscopo; finire in tempo una consegna è uguale a fare gli auguri di compleanno a un mio carissimo amico; trovare il tempo di chiamare la mia migliore amica, importante quanto a pagare la bolletta o peggio: di secondo ordine.
Ma questi non erano di giorni di quiete, di riflessione e di recupero delle cose importanti andate perse? Penso alla morte, al limite, alla finitudine. Quando sarò morta penseranno a quanto ho prodotto o a quanto ho lasciato di me? È vero, è un salto un po’ azzardato, forte. E la morte un tema indigesto per noi occidentali. Troppo difficile, troppo triste. Spaventoso.
Eppure, mi aiuta a dare il giusto peso alle cose. A sentire di non valere come chiunque altro. A sentire che la vita valga la pena di essere vissuta.
Penso a Frida Kahlo, a ¡Viva la vida! di Pino Cacucci, alle parole di Frida sulla morte, la Pelona, come la chiama lei. Ricorda l’immagine dell’incidente e dice:
Quel 17 settembre 1925, la Morte mi ha fissato negli occhi, ha osservato il mio corpo nudo, insanguinato, coperto di polvere d’oro, e quando stava per protendere le braccia verso di me, quando ho sentito il suo alito gelido…ho lanciato quell’urlo che non poteva uscire dalla gola di una moribonda, un urlo di rabbia, un urlo di amore per la vita che non volevo abbandonare a diciott’anni, ho urlato il mio ¡Viva la vida! e la Pelona, assordata, è rimasta stupefatta almeno quanto i vivi che mi si accalcavano attorno.
Mi viene in mente che l’essere umano funziona così: se sa – nel profondo di se stesso – che morirà, se sa, conosce la propria finitudine, può sentire che la vita vale la pena di essere vissuta. Una vita satura, che non si riesce a condire dei propri e unici ingredienti, diventa ingombrante, pesante, faticosa e priva di senso, dove tutto ha lo stesso colore, lo stesso sapore, la stessa importanza.
Ci vorrebbe qualcuno che ci insegnasse a celebrare la morte, dandoci la possibilità di averla a mente e facendoci quindi il grande dono di permettere a noi stessi di tirare il nostro personale urlo di amore per la vita.
Tocca trovare un rito, una forma, che ci accompagni all’interno del mondo di cui stiamo facendo esperienza, fatto di mancanza e di perdita di cose e di persone importanti.
Tocca non mettere da parte, ma trovare un modo per celebrare ciò che è stato, il fatto che non ci sia più e riuscire così a gridare il nostro ¡Viva la vida!
Quelpostoche
Pippo Delbono è un noto attore e regista italiano, vicino agli ambienti del teatro sociale.
Celebre il suo sodalizio artistico e di vita con Bobò, attore microcefalo conosciuto nel 1995 fuori dal manicomio di Aversa, mancato a febbraio dello scorso anno.
Il suo ultimo spettacolo, dal titolo La Gioia – già nato in un momento di buio e di malessere -, si trasforma in un rituale funebre, pieno di immagini, di canti e delle installazioni floreali di Thierry Boutemy.
Malgrado la sua assenza, i versi di Bobò, la sua immagine, i suoi compleanni festeggiati ogni giorno sono parte integrante della performance.
Nell’attraversare il tema della morte e della ricerca della gioia, con uno strumento potente come il teatro, la presenza dell’altro rimane ad accompagnare il nostro viaggio individuale alla scoperta della bellezza.
Qui un link al trailer dello spettacolo.
Qui, ancora per qualche settimana, altre opere di Delbono in streaming.
“With my voice, I’m calling you” è l’urlo straziante di Nick Cave in Jesus Alone, pezzo che apre il disco Skeleton Tree, dedicato alla morte del figlio quindicenne.
Mesi dopo, il film One more time with feelings racconterà il processo artistico che ha portato alla costruzione del disco.
La creazione come possibilità di rielaborazione del trauma della perdita, una delle forme più riuscite di “trasformazione del dolore in bellezza”.
“Tutti noi dovremo affrontare la morte, quindi non dovremmo ignorarla. Essere realisti riguardo alla nostra mortalità ci consente di vivere una vita piena e significativa. Invece di morire con paura, possiamo morire felicemente poiché abbiamo sfruttato al massimo la nostra vita.”
XIV Dalai Lama
Per approfondire questo pensiero qui trovate i Consigli buddhisti sulla morte e il morire, degli estratti dai dialoghi con ex residenti occidentali a Dharamsala, India.
“Di fronte alla morte spesso si preferisce non sapere, si sceglie di non pensarci, si cerca in ogni modo di non parlarne: oggi il pensiero della morte tende a essere allontanato dagli orizzonti della quotidianità. Questo allontanamento della morte comporta un indebolimento degli strumenti culturali e sociali che aiutano a far fronte al dolore in modo condiviso.”
Queste sono le parole della Fondazione Fabretti Onlus che ha come obiettivo “contribuire a costruire un approccio più sensibile e consapevole a tutto ciò che concerne il fine vita.”
“Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte è sempre in ritardo di quell’attimo.
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.”
Tratto da Sulla morte senza esagerare di Wisława Szymborska