Mi piace il lavoro, mi affascina. Potrei stare per ore seduto a osservarlo…
Jerome Klapka Jerome – Tre uomini in barca
– In copertina Il Quinto Stato di Hernán Chavar da “La lettura” –
Pre Scriptum: i giovanissimi presenti nel testo saranno indicati come Padawan, chi ha visto Star Wars – come me in quarantena – saprà che essi sono gli allievi Jedi (sisi, lo so che pure Zerocalcare ha usato i Padawan, ma evidentemente abbiamo pochi modelli di apprendisti a cui ispirarci)
Ciao, sono un’educatrice domiciliare per contratto e psicologa per scelta e vorrei raccontarvi come ho vissuto, professionalmente, la pandemia. Qualcuno di voi sicuramente si starà chiedendo: Che è uneducatricedomiciliare?
Ebbene, è una professionista che lavora nelle case delle famiglie. Sì sì, proprio dentro casa della gente. Lavora con il/la/le/i bambin* presenti, con la famiglia più o meno allargata e con la rete sociale, inclusi peluche e/o animali immaginari. Le attività che si svolgono sono le più disparate: dai colloqui al pallone, dalle attività educative progettate rigorosamente fuori dall’orario di lavoro alla briscola, dalla merenda – sì, è educativo e sì, cucinano bene – all’ascolto delle ire di genitori arrabbiati con le Istituzioni. Inoltre, è imprescindibile studiare i nomi dei personaggi di Brawl Stars o capire chi sia Tha Supreme. Eh, i giòvani, per loro l’educatrice è Matusalemme e conoscere queste cose la rende…strana…tanto da essere quasi affascinante. Tutto questo per uno stipendio orario di poco inferiore a quello di un dipendente di McDonald’s ma di poco superiore a quello di un rider.
Tutto inizia a fine Febbraio, delle giovanissime Padawan esclamano: “Indovina chi sono?…Il Coronavirus! Aaah!” “Lo sai che stanotte ho fatto un incubo? Ho sognato il Coronavirus…brrr!” e io mi chiedo come potremmo evitare che le notizie gli arrivino in maniera così potente e senza filtri.
Poi arriva il 9 Marzo. Non si può andare avanti così – dice Conte -, e chiude tutto. Lockdown totale. Tutti a casa.
Titubante, il mattino seguente domando: “Scusate, ma continuiamo a lavorare? Non mettiamo in pericolo noi e anche le famiglie?”
Le Istituzioni rispondono che il nostro servizio è considerato essenziale e, per ora, rimane attivo.
“Però mi raccomando rispettate le distanze di sicurezza!” “Scusate, Istituzioni, sappiamo che questo sarà quasi impossibile.” “Rispettate le regole che vi sono state date.” – ripetono.
Per esemplificare i timori da previdente educatrice, ecco qua il giorno dopo un giovanissimo Padawan: “Ciaaao, giochiamo? Facciamo il gioco in cui si battono le mani??”
“Certo Padawanito, però hai sentito che ora dobbiamo rispettare delle regole? Facciamolo con i piedi, dai! Inventiamo un gioco nuovo!”
In coro: “Era lu-lu-lu, era dì-dì-dì, era lu, era dì, era lu-ne-dì”
Padawanito: “No, no, non mi piace!”
Sbraaa! (sedia che si sposta) Paf! (mani addosso)
“Ora giochiamo con le mani, tanto ti ho toccato!”
Ecco. Appunto.
Dopo qualche giorno le Istituzioni sembrano arrendersi: il servizio è sospeso.
“Beh, era ora. Andare a lavorare preoccupati e allontanando gli utenti non è proficuo. Certo, peccato non aver salutato nessuno.”
Sono dubbiosa rispetto a chi sta svolgendo l’attività educativa online, ma, rimanendo nel dubbio, scarico l’infinito materiale che si riversa su internet per i Padawan. Chissà che prima o poi non torni utile.
Dopo un paio di settimane le Istituzioni informano: “Siete in cassa integrazione. Sentiremo le famiglie che seguite e vi aggiorneremo.”
Certo, rimango dubbiosa sull’educativa a distanza ma inizio a interrogarmi sul fatto di lasciare sole per tanto tempo delle famiglie fragili, con equilibri precari, in una situazione che scombussola tutti. Mi preoccupo del benessere dei miei Padawan e di chi gli sta intorno. Che dire, in questo mestiere ti affezioni.
Una settimana dopo, una speranza: “Da domani potrete chiamare le famiglie, sentire come stanno e capire come attivare gli interventi a distanza”. Il giorno seguente c’è uno stop. Problemi burocratici.
Di nuovo una settimana.“Toc toc, c’è nessuno?” Sì. I problemi burocratici.
Mese nuovo, tutto nuovo. Le Istituzioni confermano che il momento è arrivato. Posso chiamare le famiglie e riattivare l’intervento. Certo, non mi dicono da quando, come, dove. Ma in fondo perché dirti tutto subito? Non è bella la suspance in questo momento di noia?
Alla fine di questi 56 giorni nella mia testa rimangono solo domande:
Ma il mio servizio è essenziale o no? La mia salute e quella dei miei utenti sono preservate? Le Istituzioni che richiedono il nostro servizio a comando, comprendono la differenza tra accendere un pc e creare una relazione con 3, 4, 5 membri di una famiglia? Si preoccupano degli operatori e dell’impatto emotivo che ha l’interruzione improvvisa dei rapporti con le famiglie? Questi occupano 25 ore della nostra settimana. Più di quanto vedo mia madre. Più di quanto vedo i miei amici.
Il mio lavoro è valorizzato? Veramente merito di essere pagata così poco per avere nella testa tanti bambini e quasi il triplo degli adulti che se ne occupano? Dovrei sentirmi fortunata perché il lavoro che svolgo mi piace e con questa fortuna pagare l’affitto?
E poi alla fine continuo a chiedermi se ai Padawan spaventati dal Coronavirus qualcuno avrà spiegato cosa sta succedendo e se quegli adulti, che già erano in difficoltà, ce la faranno ora. Qualcuno li sta aiutando?
Perché il tuo lavoro è anche preoccuparti per loro.
Il Becca
Altre storie di quotidiano lavoro sociale – ai tempi dell’emergenza sanitaria – potete leggerle qui, raccolte in un grande racconto collettivo creato da Animazione Sociale, una rivista mensile parte del progetto culturale dell’Associazione Gruppo Abele.
E’ arrivato il momento di scusarci con i lavoratori pagati poco
In questo interessante articolo viene illustrato in maniera molto chiara come è organizzato il mondo del lavoro in Italia, quali sono le categorie che a oggi si sono ritrovate a svolgere telework e quali servizi, invece, sono rimasti aperti in quanto ritenuti essenziali.
Appare chiara la relazione tra i diversi settori e il reddito medio orario dei lavoratori. Tra quelli scarsamente retribuiti rientrano principalmente coloro che operano nelle attività che a oggi sono chiuse o che non possono usufruire del telework, ed è chiaro immaginare quali difficoltà stanno affrontando e dovranno affontare nel prossimo futuro. Quasi un terzo di loro, invece, opera in quei servizi ritenuti essenziali, eppure la loro retribuzione non rispecchia tale importanza.
Questa discordanza è dovuta spesso al fatto che queste persone sono meno qualificate e per questo considerate meno produttive. Ma il titolo di studio è davvero meritocratico o dipende anche da fattori sociali?
La ricercatrice Marta Fana ci fa entrare nei meccanismi che governano tali scelte.
L’articolo è accompagnato da bellissime illustrazioni di Luchadora e appare su Scomodo. Per chi non lo conoscesse, questo progetto ideato da ragazzi under 25, nasce con l’obiettivo di creare un giornale cartaceo studentesco di informazione critica e indipendente. La rivista viene distribuita gratuitamente nelle scuole e nelle università ed è autofinanziata, vi invitiamo a scoprire qui la loro proposta e i loro contenuti.
Qualche giorno fa, per uno dei miei progetti, mi è capitato di intervistare un ricercatore sulla quarantina che alla domanda “Come si è modificato il tuo lavoro in questo periodo?” ha risposto con una riflessione che mi ha quasi spaventata. In quanto padre separato e lavoratore, ha la necessità di concentrare il lavoro nelle giornate feriali, in modo tale che il weekend possa essere interamente dedicato ai figli.
Lavoratore e genitore… e il resto dello spazio personale?
Con la formula dello smartworking sembra essere sempre più difficile confinare quello spazio e quel tempo che sono per sé soltanto. Sfera privata e sfera professionale sembrano aver perso i loro confini, in uno stato di allerta e reperibilità costante che ha reso più complessa la gestione del quotidiano. Qualora dovessimo proseguire il nostro lavoro in questa modalità, non sarebbe forse necessario regolamentare il nostro diritto alla disconnessione?
Simone Cosimi in un articolo pubblicato su Wired suggerisce di sì.
Non al denaro non all’amore né al cielo è un famosissimo concept album di De Andrè liberamente ispirato all’Antologia di Spoon River di E. L. Masters. Si tratta di una “passeggiata letteraria” in un cimitero della cittadina immaginaria di Spoon River, la cui storia viene ripercorsa attraverso gli epitaffi sulle lapidi dei suoi abitanti che De Andrè ha egregiamente riadattato e messo in musica.
E’ uno dei dischi della mia infanzia, eppure solo l’altro giorno un’amica cactus mi ha fatto notare che la maggior parte dei pezzi porta nel titolo il lavoro del suo protagonista. Voi ve n’eravate accorti?
E da qui sorge spontaneo chiederci: quanto il nostro lavoro definisce la nostra vita, a quanto pare anche quando lasciamo questo mondo?
Con orecchie nuove o con quelle di sempre, è sempre bello (ri)ascoltarlo.
Amici di Cactus, vi ricordate l’ultima newsletter? Quella dove abbiamo sbagliato il nome del nostro affezionato lettore Andrea Guidantoni (con cui ci scusiamo)?
Oltre a comunicarvi che abbiamo già provveduto a staccare le spine al nostro correttore di bozze, volevamo proporvi un contenuto inviatoci da un nostro lettore – Francesco Paniè – in risposta alle tematiche che abbiamo sollevato.
Vi invitiamo a leggerlo qui.