Chissà se hanno le mutande di cotone nel futuro.
Christopher Lloyd – Ritorno al futuro, 1985
– In copertina Maurits Cornelis Escher – Le Metamorfosi, 1939/1940
A quasi tre mesi di distanza dalla prima riunione del nostro gruppo, eccoci qui a fare i primi bilanci. Tre schermi, tre città diverse, piccoli gruppi adesso riuniti. Abbiamo avuto modo di crescere, conoscerci a fondo, mettere a frutto le nostre potenzialità. Ora che pian piano i limiti di spostamento si sono attenuati non vediamo l’ora di poterci incontrare dal vivo.
Ci piace pensare che Cactus sia stato uno degli effetti positivi del Coronavirus, nato dall’urgenza espressiva di un momento particolarissimo e per noi estremamente stimolante. Ora i nostri ritmi sono tornati a qualcosa di simile alla normalità, la densità del tempo si è un po’ diradata e i nostri percorsi incasinati ci hanno richiamato agli impegni che avevamo in precedenza. Ma abbiamo imparato cose importantissime.
Sicuramente che il futuro si costruisce nel presente, con impegno, a piccoli passi.
E che è infinitamente più bello costruirlo insieme.
Continueremo a coltivare questo progetto, in cui crediamo moltissimo, ma un passo alla volta abbiamo la necessità di assumere nuove forme. La nostra newsletter continuerà ad accompagnarci una volta ogni due settimane.
Nel frattempo raccogliamo le energie per poter immaginare qualcosa di diverso e di nuovo che non vediamo l’ora di poter condividere con voi!
E giorno dopo giorno è
Silenziosamente costruire
E costruire è sapere
E potere rinunciare
Alla perfezione
Niccolò Fabi – Costruire
C’è una copertina del New Yorker che mi ha colpita tantissimo qualche anno fa. Era il 2014 ed era un momento difficile per me. Mi stavo per laureare, stavo per uscire fuori dalla struttura formativa che per più di 18 anni mi aveva dato dei confini e iniziavo a intravedere la distesa sterminata di futuro che si apriva davanti a me con grande terrore.
Per quanto avessi sempre avuto difficoltà a stare all’interno dei confini che il sistema educativo mi imponeva, per la prima volta mi sono resa conto di quanto quei confini per me fossero fondamentali: la verità è che mi sentivo contenuta e protetta dalle regole e dal percorso determinato, non solo ingabbiata.
Non sapevo cosa aspettarmi dal futuro, da un futuro in cui tu puoi scegliere liberamente cosa essere e cosa diventare, come vivere, dove sei tu finalmente libero di determinare la tua vita.
Era il mio sogno, il mio desiderio più grande, la meta verso la quale mi ero affannata a correre esame dopo esame ma ora che la intravedevo ero paralizzata dalla paura.
In maniera approssimativa sapevo già abbastanza chi fossi all’epoca, ma anche e soprattutto grazie alle regole che criticavo e a cui mi opponevo.
Chi sarei potuta essere fuori da lì? Chi volevo diventare? Che futuro desideravo per me?
Era difficile spiegare alle persone intorno come mi sentissi: nonostante avessi sbagliato facoltà il primo anno, avevo fatto tutto in tempo (cioè di corsa) e gli altri erano molto fiduciosi nelle mie capacità. La risposta è che non dovevo preoccuparmi, ero intelligente e piena di risorse, un futuro luminoso mi attendeva.
Mentre io mi sentivo persa e l’unica cosa che intravedevo nel futuro luminoso era un buio profondissimo.
Quella primavera mi sentivo un peso enorme sul petto, mi ricordo che guardavo in alto tra le foglie degli aceri rossi del mio quartiere e mi sentivo un condannato a morte, sentivo che ogni passo in avanti era un avvicinamento alla rupe sotto la quale c’era il vuoto.
Nonostante credessi di essere stata cresciuta come uno spartano, nessuno mi aveva preparata al futuro.
Incappai quella primavera in questa copertina del New Yorker e non so bene dire cosa dell’immagine mi aveva catturata, mi trasmetteva una sensazione di calma.
Poi lessi la storia dell’illustrazione, di Tomer Hanuka.
“Incontrare il mondo da adulto per la prima volta – penso che sia di questo che parla la storia. Si tratta di una cosa potente. Ogni finestra che hai guardato prima era il mondo dei tuoi genitori e ora, all’improvviso, sei in una città. Sei pieno di ottimismo e senso di libertà: sei appena stato liberato ed è fantastico. E poi ti rendi conto che puoi fare molto poco e senti una profondissima delusione. Ma l’heartache e tutto il resto, quelli arrivano dopo.”*
Rimasi colpita perché, nonostante fossi andata via di casa da un po’ di anni e avessi già guardato fuori dalle finestre di tanti appartamenti diversi, per la prima volta mi stavo davvero affacciando su Roma, sul mondo, sul mio futuro.
Non ero sola, nel guardare fuori verso il futuro accanto a me c’erano migliaia di persone: eravamo una schiera, tutti spaventati a chiederci se ce l’avremmo fatta, se avremmo potuto badare a noi stessi e al tempo stesso fare qualcosa di meglio e di diverso dai nostri genitori, se eravamo in grado di sostenere le aspettative di cui ci eravamo caricati.
Potevamo farlo, insieme.
Guardando un’immagine mi sono sentita più forte, non sola, meno spaventata.
E ogni volta che pensare al futuro mi mette un po’ di agitazione riguardo quella copertina, che un atto di amore ha fatto diventare quadro sul muro nelle case in cui ho vissuto e vivrò in futuro, mentre continuo, pezzo dopo pezzo, a costruirlo.
Z.
*(trad. mia)
Nella mia esperienza personale e professionale, ho imparato che le crisi si superano attraverso una simbolizzazione: nel cercare di afferrare il proprio, personalissimo, significato rispetto allo scossone che ci siamo ritrovati a vivere.
Da giorni rifletto sul fatto che siamo praticamente nel futuro, ma anche un po’ no: il tanto atteso dopo-quarantena è arrivato e lentamente possiamo ricominciare a pensare al futuro, quello tanto sognato, desiderato e promosso a gran voce in tempi di lock-down.
Da brava ansiosa, ho sempre avuto uno strano rapporto con il futuro: idealizzato o vissuto come irrimediabilmente catastrofico. Incredibilmente, forse, tutta questa incertezza in quello che verrà e la puzza di limiti insuperabili che ho annusato negli ultimi tempi, mi hanno portato a focalizzarmi sul qui e ora. Non è sempre una pacchia eh! Significa non riuscire a fare programmi a lungo termine o a immaginare il proprio futuro, nemmeno quello più prossimo.
Mentre sono qui, che cerco di re-imparare a pensare il futuro e simbolizzare quello che abbiamo attraversato recentemente e che sto provando adesso, mi viene in mente la saudade e la sua definizione – non è l’unica – come nostalgia del futuro. Sento di aver perso il futuro? Un po’ sì, quantomeno quello che avevo spesso immaginato, prima di tutto questo.
Mi viene in mente che da qualche parte ho letto che il genere musicale capace di spiegare la saudade è la Bossa Nova, in grado di armonizzare emozioni e sentimenti che siamo abituati a mettere in due contenitori ben distinti: l’allegria e la malinconia, la speranza e il lutto.
Quelpostoche
Siccome sappiamo che la musica aiuta a simbolizzare eccovi un piacevole assaggio di Bossa Nova.
E tutte le vite che abbiamo vissuto e quelle che dobbiamo ancora vivere sono piene di alberi e foglie che cambiano.
Virginia Woolf