La nostra voce è la musica che fa il vento quando ci attraversa il corpo.
Daniel Pennac – Storia di un corpo
Quando nasciamo abbiamo un corpo in dotazione.
Uno strumento potente, in continuo mutamento, di cui noi spesso non possiamo decidere e controllare le evoluzioni.
Un’arma, una enorme responsabilità, un peso spesso nella misura in cui non lo abbiamo scelto noi.
Alzi la mano chi si sente perfettamente a suo agio nel suo corpo, in ogni sua componente e manifestazione.
Vi vedo, siete pochissimi ed è normale.
Come possiamo stare bene in una casa in cui non abbiamo scelto di abitare?
Il potere grande però è che possiamo fare dei lavori, modificarla, arredarla come a noi piace per sentirci a nostro agio. A volte si tratta semplicemente di metterci mobili e quadri, in alcuni casi ci tocca eliminare e spostare i tramezzi, mettere porte per sentirci al sicuro. Altre volte, sono lavori strutturali, costosi e difficili, quelli che ci permettono di abitare finalmente nel nostro corpo.
Seguo Fumettibrutti da qualche anno su Instagram e i suoi fumetti li ho sempre trovati tutt’altro che brutti: mi parlano spesso, in modo violento, e mi emozionano non tanto per le linee o le immagini ma per le sensazioni forti che comunicano.
Una cosa che però mi ha sempre lasciato perplessa è quanto mostrasse il suo corpo: non ho mai pensato che fosse una cosa brutta o sgradevole, ma una parte di me si è chiesta per anni perché questa persona così ricca e così abile a comunicare con disegni e parole sentisse il bisogno di comunicare – forse ancora di più – attraverso il suo corpo, esibito in ogni modo.
Quando ha annunciato l’uscita de La mia adolescenza trans ho capito e mi sono vergognata tantissimo, solo leggendo il titolo mi era tutto chiaro.
Quel corpo è un tempio, non è solo un corpo ma il terreno su cui sono state giocate lunghe e sofferte battaglie che hanno portato Yole al più grande dei trionfi umanamente raggiungibili: diventare se stessa.
E come puoi non mostrare con orgoglio al mondo una vittoria così bella?
Si tratta di pride nel senso più profondo e sacro del termine, l’orgoglio di essere te stesso così come sei, un concetto con cui ho dovuto familiarizzare negli anni per poterlo comprendere.
Sono stata cresciuta in un contesto molto libero, dove mi è stato insegnato che le differenze sono semplicemente varietà di espressioni della bellezza del mondo: andando via di casa e facendo esperienze ho realizzato che quello che per me è qualcosa di imprescindibile dalla natura dell’esistenza – ahimè – per molti così non è. E ho scoperto che bisogna tenere a mente e dire ad alta voce cose che per me sono scontate: perché io ho la fortuna – nel mio micro-cosmo – di essere libera di essere me stessa in tutte le mie forme senza problemi ed è in nome della mia libertà che devo dire queste cose ad alta voce anche per chi così libero non è.
E allora perché – nonostante la mia bella e fortunata libertà – mi suscitava perplessità l’esibizione orgogliosa del corpo di Yole prima di conoscerne la storia?
Perché forse così libera non sono neppure io e la prigione non è il mio corpo, con cui pure ho un rapporto tremendo e l’ho torturato in ogni modo possibile, ma la mia mente, avvelenata dall’idea che essere se stessi non basta per essere orgogliosi, che bisogna esserselo meritato, aver faticato e aver lottato, ma è una stortura gigantesca.
Dobbiamo essere orgogliosi ogni giorno di essere noi, nel nostro corpo, nei nostri desideri, nei nostri sogni, nelle nostre debolezze e in ogni declinazione del nostro esistere, non dobbiamo meritarcelo ma abbracciarlo e sentirlo.
Ne abbiamo diritto e nessuno potrà mai portarcelo via.
Così come nessuno potrà mai davvero sapere quanto è stato faticoso domesticare la nostra casa, essere noi ed esistere ogni giorno, da quando siamo nati fino a oggi, ma noi abbiamo la possibilità di comunicare agli altri l’immensa gioia che ricaviamo in ogni istante, in ogni movimento e contatto di pelle, dall’essere noi.
Ogni mattina, ricordiamocelo, ripetiamocelo.
Anche se quest’anno non potremo scendere in piazza, facciamolo ogni giorno, in ogni parola e in ogni gesto, quando siamo da soli, con chi amiamo, sul posto di lavoro.
Siamo orgogliosi di essere noi stessi perché in definitiva è questo amore a rendere tutto possibile.
Su Google Books potete sfogliare le prime pagine de La mia adolescenza trans di Fumettibrutti.
J’ai perdu mon corps – Dov’è il mio corpo?
Mi aspettavo che sarebbe stato un film emotivamente intenso, che ne avrei apprezzato lo stile e che in fondo mi sarebbe piaciuto.
Mi aspettavo che non mi avrebbe deluso e che avrebbe parlato del tema del corpo.
Quello a cui non ero preparato è stato scoprire il suono di una mano che cammina: un diteggio pesante, secco e modulato secondo velocità e tipo di superficie percorsa.
Mi ricordo di una cosa importante: i sensi sono parte del corpo, fare attenzione al corpo significa anche fare molta attenzione ai sensi.
Nelle scene della mano in primo piano c’è l’esperienza sensoriale e la sua narrazione la sappiamo: è il titolo.
Intervallata a queste scene, ci viene narrata – in uno stile invece molto realistico – la storia del ragazzo che è il “proprietario” della mano.
Credo che il film ti porti a vivere attraverso i sensi e il corpo una storia sorprendente.
Se l’avete visto potete provare a verificare se siete d’accordo: se avete altre idee scriveteci!
Potete vederlo qui.
“Amiamo il vero corpo, fragile e vulnerabile, e non il corpo ideale e tirannico della norma. Amiamo il corpo poetico, perché il linguaggio è solo uno degli organi astratti del corpo vivo. E amiamo il corpo in tutte le sue dimensioni organiche e inorganiche.”
Un Inno al corpo, su Internazionale, di Paul Beatriz Preciado: docente di storia politica del corpo presso l’Università di Parigi VIII. Scrittore e filosofo diventato punto di riferimento per la teoria queer.