La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.
Piero Calamandrei
– In copertina Eugène Delacroix – La libertà che guida il popolo, 1830 –
Cosa vi fa sentire liberi?
“Uscire di casa senza alcuna giustificazione – no spesa, no farmacia e no lavoro – ma semplicemente per andare in spiaggia a sentire il rumore del mare!” I.
“La libertà non è star sopra un albero e nemmeno il volo di un moscone. La libertà non è uno spazio libero. Libertà è PARTECIPAZIONE!!!!” S.
“Uscire senza reggiseno. Specialmente d’estate!” E.
“Poter uscire di casa vestita come mi pare senza sentire nessun tipo di sguardo addosso.” R.
“Non avere sensi di colpa, pensare a me senza prevaricazione alcuna, cantare per strada, ridere e sognare.” D.
“Poter scegliere.” G.
“Non dovermi giustificare con nessuno.” C.
“Non mi sento libero perché ho libertà di scelta ma perché mi trovo dove voglio essere, con chi voglio essere” M.
“Avere la possibilità di scegliere cosa fare e quando farlo libero da ogni vincolo, a parte quello di non danneggiare gli altri, e di vivere la mia unica vita come meglio desidero. (Se dovesse essercene un’altra si vedrà, ma spero di ricordarmi quello che penso in questa rispetto alla libertà)” A.
“La vita che conduco.” T.
Fortunatamente abbiamo ricevuto da voi questo ricco buffet di risposte.
Da Cactus era germogliata solo questa variegata ma stramba insalata di parole:
Libero perché non sposato.
Libero/occupato: il bagno o un posto a sedere.
Libero è un giornale?
La casa delle Libertà.
Il Liberismo (ha i giorni contati).
Nonno Libero.
Libertà di pensiero, parola, culto, espressione.
Ingresso libero.
Libera uscita.
Libere associazioni.
Libero arbitrio.
Liberato.
Tempo libero.
Libero mail.
Liberarsi.
Libertà di movimento – libertà di viaggiare.
Pensieri in libertà.
Radicali liberi.
Liberi tutti.
Ti sei mai sentito un pesce fuor d’acqua?
Pensaci: quando veniamo generati il nostro primo impatto è con l’acqua. Ci abituiamo a quel tepore, a quei suoni ovattati, e mi piace immaginare ad uno stato di serenità e quiete dentro quella grande bolla fatta di acqua che è il ventre materno.
Ad un certo punto, quella bolla scoppia e vieni catapultato fuori, nel mondo esterno, e sei costretto a respirare.
E allora quella sensazione di pesce fuor d’acqua ce l’abbiamo ben presente tutti, ci appartiene profondamente.
Poi impariamo a stare nel mondo, a camminare, a muovere le braccia, a parlare e piano piano quella sensazione di estraneità svanisce.
Io, un pesce fuor d’acqua, mi ci sono sentita da quando sono venuta al mondo fino ad una decina di anni fa circa.
Il mio background culturale e sociale di origine è quello di una città del sud, non molto piccola e al tempo stesso abbastanza piccola da far sì che le persone ti guardino e ti giudichino per ciò che fai.
Sono cresciuta guardando tante caselline di appartenenza dove dovevi necessariamente rientrare, un po’ come il gioco dell’oca. Se non stai in una casellina sei fuori, no?
Il problema è quando senti che nessuna di quelle caselline che vedi ti appartiene.
E allora che fai? Puoi scegliere: indossi una maschera e ti fingi pedina del gioco dell’oca o sei fuori.
E io, per 19 anni, pur di non uscire dai giochi, mi sono travestita da pedina e ho giocato.
Hai mai indossato un vecchio jeans che ti sta molto, molto stretto? (Uno di quelli a vita alta, per farti comprendere ancora meglio).
La sensazione è più o meno la stessa: senti l’addome compresso e non riesci più a comprendere se il dolore che provi sia interno o esterno, ti manca l’aria per quanto è stretto, vorresti solo strappartelo e lasciarti andare ad un lungo pianto e poter scegliere una qualunque altra cosa da indossare. E invece no. Te lo devi tenere.
Gli occhi puntati e il giudizio del mio contesto sociale sono stati per me l’equivalente dei jeans a vita alta dopo aver preso 30 kg in un mese.
Hai mai letto Branchie di Ammaniti?
Se non l’hai mai letto mi dispiace, sto per spoilerartelo: alla fine il protagonista capisce di appartenere all’acqua e si impianta delle branchie per poterci vivere.
Le mie branchie sono state il trasferimento a Roma.
Qui, da 11 anni ormai, ho piano piano capito che potevo lasciare tutte quelle caselline, appendere al chiodo il vestito da pedina ed essere qualunque cosa io mi sentissi di essere, e alle persone non sarebbe importato un granché.
Le mie branchie sono state la libertà.
La libertà esterna ed interna dal giudizio degli altri e dal mio.
La libertà di potermi fermare, ascoltarmi nel profondo e chiedermi: “È una mia scelta questa? Sono davvero io?”.
E magari, oggi, quando sto in una casellina è perché l’ho scelto io, perché fa parte di me e sono profondamente e autenticamente io.
Perché sono libera.
XXY
Quando ero più o meno piccola, per una promozione a scuola, mio padre mi regalò una copia della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948.
Altro che smartphone.
Non so se me la regalò perché riteneva fosse importante o solo perché erano gli albori di internet e lui era affascinato dal fatto che il mondo ti si potesse aprire davanti permettendoti con un click di stampare un documento come quello.
Sono convinta che la Dichiarazione dei diritti umani la dovrebbero regalare le scuole – non i genitori – o almeno dovrebbero farla leggere e discutere, perché una parte fondamentale dell’educazione è insegnarti quali sono i tuoi diritti e quelli degli altri.
Affinché tu possa sempre farti rispettare e rispettare gli altri.
Comunque non c’era bisogno di regalarmi quel documento per farmi capire cosa fosse la libertà e quanto fosse importante: a casa mia ciò era evidente dal fatto che nella libreria ci fosse uno scaffale con la Bibbia e i libri di catechismo e un altro con l’enciclopedia sulla vita di Lenin.
Nella dichiarazione universale dei diritti umani ci sono 30 articoli, tutti essenziali e importantissimi, ma forse l’ultimo è quello che oggi trovo più necessario:
“Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati.”
L’unica libertà che nessuno può prendersi è quella di togliere la libertà stessa a qualcun altro.
Becca
Se volete leggerla o rileggerla, la trovate qui.
Amnesty International ogni anno premia canzoni il cui testo contribuisce alla sensibilizzazione sulla difesa dei diritti umani. La prima edizione è stata vinta da Daniele Silvestri con la canzone Il mio nemico. Ascoltatela qui nell’ultima versione in collaborazione con Rancore.
C’era un ragazzo che tanto amava giocare, forse perché non era riuscito a farlo abbastanza da bambino: troppe distrazioni allora, troppe cose serie a cui pensare. Giocare era evadere da una realtà che aveva ombre, spine e catene. Suonare in un gruppo e creare effimeri mondi alieni di suoni e rumore che vivevano in pochi minuti. Giocare di ruolo inventando storie mirabolanti, atroci, sublimi, divertenti e appaganti.
Questo ragazzo giudicava tutto questo come fughe dalla realtà: un giorno – si diceva – non avrò più bisogno di giocare, ma farò cose eccezionali, importanti!
Aveva, questo ragazzo, il mito dell’uomo serio e impegnato. L’unico impiccio – si diceva – è questa mia fissazione a giocare a fare la rivoluzione.
E quanto si impegnò questo ragazzo a fare la persona seria! Quanto tempo gli toglieva! Quel poco che gli rimaneva lo usava per giocare, per evadere, da solo: ancora un poco, solo per stare meglio, poi smetto e divento una persona seria!. Ci mise un po’ ad accorgersi che tutto questo stare da solo, sorprendentemente, gli faceva sentire una profonda solitudine.
La sua prima rivoluzione è stata accorgersi che se alzava lo sguardo, intorno a lui era pieno di persone.
La seconda è che con loro poteva giocare.
Quando cominciamo a diventare adventurer, avventurieri, e cominciamo a uscire dal nostro guscio e sperimentare aumenta la libertà ma con essa l’ansia, diceva Simone de Beauvoir. Quindi per il ragazzo non fu facile fare i primi giochi insieme agli altri. Era inesperto, impacciato, spesso qualcuno finiva per farsi male. Non era abituato a mettere a fuoco distanze così lontane dal suo amato sé stesso e di vedere le altre persone nitidamente non gli riusciva sempre bene.
La terza rivoluzione è stata capire che non si può essere pienamente liberi, se gli altri intorno a te non lo sono. Ecco una bella narrazione per la propria vita! Ecco una missione, uno scopo, un obiettivo!
Forse però Simon de Beauvoir l’avrebbe declassato a serious man, l’uomo serio dedicato a una missione che lo ottenebra e lo incatena. Forse il ragazzo si stava dando troppa importanza, un vero e proprio pallone gonfiato! Allora capì che voleva imparare e cominciò ad osservare quello che altri dicevano e facevano.
“Giocavo con grande serietà e ad un certo punto i miei giochi li hanno chiamati arte” diceva Maria Lai, “sperimentare la possibilità creativa di chi è conscio, nel momento in cui sceglie di agire, di partecipare ad un grande gioco, di far parte non soltanto della storia della sua comunità, ma d’essere anche un attore e creatore di una grande immagine che quando riesce è arte”.
Troverò la forma d’arte che mi riesce meglio! – si disse il ragazzo che nel frattempo era diventato uomo – e tramite essa cercherò di fare la mia parte per renderci più liberi: ecco un gioco a cui vale la pena giocare, e per il domani… chissà.
L.
La libertà deve trovare ostacoli per diventare libertà; per lottare per la libertà dobbiamo perderla, mantenendo sempre vivo il suo ricordo almeno nell’immaginazione. Io so quello che ha significato per me; stando in carcere ho capito e ho amato la libertà soprattutto quando mi hanno messo per qualche giorno in una cella di un metro di altezza e sessanta cm di larghezza. Io non pensavo che in Brasile esistessero appartamenti come quello ma nell’esercito ce ne sono ancora.
C’è un’altra cosa che ho colto completamente ed è una questione filosofica. Per essere liberi dobbiamo andare oltre l’immaginazione, oltre i nostri sogni e i nostri sentimenti. Devono essere create condizioni materiali per ottenere la libertà. Mentre mi trovavo in quella cella potevo immaginare il mondo esterno, potevo volare con l’immaginazione ma ero chiuso lì dentro. Per essere libero dovevo sfondare la porta o qualcuno doveva aprirla per me, altrimenti non avrei potuto esserlo. Ma potevo ancora sognare. La stessa cosa vale per alcune società o persone: dobbiamo sognare ma dobbiamo anche lottare per concretizzare i nostri sogni.
Paulo Freire
Per approfondire il pensiero del pedagogista brasiliano e della sua idea di educazione come pratica di libertà vi consigliamo questo podcast di Radio 32.