I sentieri si costruiscono viaggiando.
Franz Kafka
Sono al 14° giorno del cammino di Santiago, che finirà nella magia del Mar Cantarbico a Muxia, non alla ricerca di Dio o di me stesso, ma perché una mattina mi son svegliato dicendo, si parte; e tutti i pellegrini incontrati mi han detto che quando è il momento di partire, lo senti, e nulla, nemmeno il Covid può fermarti.
E così è stato. […]
Questa settimana, mentre in Cactus si esplorava il tema del viaggio, Carlo – uno dei nostri più assidui lettori – era nel mezzo del suo personale cammino. Ha deciso di scrivere un contributo per noi che potete trovare qui.
Pensare al viaggio mette in crisi l’idea e la visione che ho di me, la mia identità. Quando penso a me e al viaggio c’è un paradosso che non riesco a sciogliere perché emergono due parti di me inconciliabili.
C’è una versione di me che quando è in movimento sta bene, si esalta nell’ignoto e nella scoperta dell’imprevisto, anzi lo accoglie con gioia, anche quando è difficile e mette alla prova. Attiva e curiosa come un bambino, negli spostamenti si esalta, la vitalità fluisce, lo scambio è intenso, tutto è un’occasione di crescita; guarda la punta della montagna e vi si incammina dicendo: “vorrei proprio sapere che vista si vede da lassù”.
C’è un’altra versione di me che è attaccata alla città e ai suoi dintorni. Preferisce i piccoli spostamenti, il ripassare tante volte negli stessi luoghi, curiosa degli anfratti si incanta sulle piccolezze: lo stucco caduto dai muri, il contorno di un comignolo sul cielo, il mistero dei messaggi e delle persone dietro ai graffiti, la discutibile commozione per pilastri di cemento e l’erba che li reclama, i tristi paesaggi industriali. La conoscenza piccola, degli edifici, dei luoghi, delle storie, del tempo che passa.
Schierandomi un po’ con una, un po’ con l’altra, ho preso a turno le parti di queste due versioni di me, alternando i vessilli delle ragioni del viaggiatore e di colui che rimane, che abita. Il risultato è che a ogni cambio di sponda l’altra parte si faceva grande, la sua voce forte e se avessi deciso di non ascoltarla il prezzo sarebbe stata la frustrazione dell’ignorare una parte di me, La sensazione del bisogno non soddisfatto.
Frustrato mi sentivo nel perdere l’amore, anno dopo anno, verso il posto in cui sono cresciuto.
Volevo andare altrove: sono partito, me ne sono andato, sono fuggito.
Quando tornavo, improvvisamente Roma tornava ad essere bella,ricominciavo ad amarla.
A volte scopro il senso delle mie scelte solo dopo anni che le ho fatte e razionalmente capisco solo adesso quello che per il mio istinto era già chiaro e cristallino: dopo sette anni a Torino ho capito che per concedermi il piacere di viaggiare avevo bisogno di una casa in cui tornare.
Le parti che credevo in conflitto non lo erano, ma costruivano insieme un modo per coesistere, consce dell’interdipendenza che le legava. Il resto di me, nell’erronea convinzione di poterne soddisfare solo una per volta, non aveva occhi per vedere.
Ora ho una casa che in gran parte ho scelto e costruito io – non quella in cui per caso sono nato e cresciuto, non con le persone che mi devo far andare bene -, ma insieme a quelle che mi piacciono e mi fanno stare bene.
L.
Night Safari racconta letteralmente di un safari notturno in Africa, dal tramonto all’alba, e descrive con i suoni i panorami incredibili che si avvicendano nel corso della notte. Questo disco mi ha accompagnata durante la primavera del mio tirocinio post-lauream in ospedale e aveva l’esatta durata del tragitto che dovevo percorrere.
In macchina alle sette del mattino iniziavo ogni giorno questo viaggio, vedevo il sole che calava mentre uscivo dal parcheggio e mi addentravo nel buio della notte: mentre le macchine accanto a me erano ferme in coda io mi trovavo in Africa.
Sonorità oniriche, tamburi in lontananza, voci in lingue sconosciute.
E poi dopo 45 minuti all’improvviso l’alba, Brazilia: le voci esotiche di uccelli mai visti, i suoni della natura che si risveglia e il Sant’Andrea sullo sfondo.
Partite anche voi per questo Night Safari con Populous.
Viaggiare sentendosi sempre nello stesso momento nell’ignoto e a casa, ma sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che prima e dopo di lui albergano sconosciuti, non possiede il guanciale su cui posa il capo né il letto che lo ripara. E così comprende che non può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine. Non per nulla il viaggio è anzitutto un ritorno e insegna ad abitare più liberamente la propria casa.
Utilizzo copiosamente le citazioni.
Nella parola detta quasi mai, in quella scritta molto spesso: quando scrivo a qualcun*, una dedica, un augurio, un messaggio d’amore inizio con il citare un testo, una poesia, una frase che qualcun altr* ha scritto, per poi aggiungere qualcosa di mio. Un importante (e mai celato) amore per la teatralità, associato ad una certa insicurezza? Forse. Sento che le parole altrui possono darmi voce, esprimere pensieri ed emozioni in me vaganti e fumosi.
Un testo che spesso è venuto in soccorso della mia momentanea agrafia è L’infinito Viaggiare di Claudio Magris.
Racconti di viaggio, riflessioni sul viaggio, citazioni di autori che hanno scritto sul viaggio. Io me lo ricordo così questo libro, ma soprattutto ricordo le innumerevoli frasi per me illuminanti.
Ne trovate alcune qui. Buona lettura e buon viaggio!
Q
Wild è un libro e anche un film.
Wild è la prima cosa che mi è venuta in mente pensando al viaggio.
Wild parla del viaggio che facciamo tutta la vita, quello interiore.
Wild parla soprattutto alle donne, raccontando attraverso la pancia quelle fatiche che ci accompagnano quotidianamente.
La protagonista, Cheryl, porta lettori e spettatori lungo un percorso di rinascita battuto concretamente lungo il Pacific Crest Trail con due pesanti scarponi da trekking ai piedi e un enorme zaino sulle spalle. Attraverso un continuo salto tra il qui e ora dei faticosissimi chilometri e il là e l’allora del suo passato – pesante almeno quanto lo zaino che porta sulle spalle – Cheryl sembra riappropriarsi della sua storia e del suo diritto di stare al mondo e il viaggio attraverso gli oltre 4mila chilometri si fa contenitore di ricordi, emozioni, scelte e relazioni che portano Cheryl a fare ritorno nella propria pelle.
Una storia di coraggio e autodeterminazione.
Potete guardarlo qui.
Quelpostoche
Si dice che le coliche renali provochino uno dei dolori più intensi che l’essere umano può esperire.
Io soffro di coliche renali da quando avevo pochi mesi ed è un dolore con cui ho una rassegnata confidenza: sento quando stanno arrivando e se non ho nessuno che può farmi un’iniezione di Toradol mi incammino verso il Pronto Soccorso.
So che non possono fare niente di più che somministrarmi un antidolorifico, però preferisco andare al PS anziché sperare che il calcolo esca presto mentre zoppico per raggiungere il bagno di casa. E poi mi piace l’odore di ospedale.
L’ultima volta che ho avuto le coliche me ne sono resa conto un po’ più tardi del previsto, stavo già parecchio male e ho chiesto a due amici di accompagnarmi; una volta arrivati brutta sorpresa: non potevano accompagnarmi dentro. Ci siamo fumati una sigaretta e ci siamo salutati, erano le 6.30 di sera e sono entrata ad aspettare il mio momento.
Per fortuna avevo con me In Patagonia di Bruce Chatwin appena iniziato, quindi l’attesa non mi ha scoraggiato. Era un libro che mi era capitato tra le mani per caso e per noia – non lo avrei scelto, ecco – però mi aveva incuriosito la curiosità di Chatwin per l’umano.
Avete presente quanti mondi si incontrano in un Pronto Soccorso di notte?
Tantissimi: è incredibile come in un unico posto sia possibile che transitino storie umane, provenienze geografiche, classi sociali, età ed esistenze tanto diverse nel giro di poche ore.
E mentre Bruce percorreva la Patagonia attraverso soprattutto i volti e le parole della gente, attraverso il contatto con loro, o semplicemente osservandoli e ascoltando le loro storie, anche io stavo facendo un viaggio simile perché il mio codice bianco continuava a rimanere il meno urgente, nonostante i dolori terribili, e quindi decine di situazioni cliniche più gravi entravano, sostavano e venivano visitate prima di me.
Ci sono stati un sacco di incidenti quella sera, alcuni addirittura portati con l’elicottero. Loro non sono passati per la sala d’attesa, i medici e gli infermieri erano agitati, mi sono chiesta se qualcuno fosse in fin di vita e ho sperato di no.
Un occhio alla Patagonia, un occhio alla sala d’attesa.
Una signora benvestita entrata poco dopo di me era furiosa per l’attesa, perché anche lei era lì da oltre tre ore con un dolore addominale considerato non troppo urgente, urlava e protestava, tacciando di raccomandazione quelli che passavano avanti. Inutile per le infermiere spiegare che era una questione di gravità e ho pensato in quel momento che il dolore fisico rende ciechi come poche altre cose, l’umano torna animale e reagisce di conseguenza: attacco o fuga, e ognuno di noi tende verso uno dei poli di questo continuum.
Un orecchio al rombo del Perito Moreno, un occhio al nuovo che è entrato dalla porta.
Sono entrati e usciti diversi stranieri nel corso della nottata, accorsi per i motivi più disparati, che cercavano con rassegnazione di spiegare il loro dolore e la loro urgenza agli infermieri, senza utilizzare la lingua italiana. Ho pensato a quanto deve essere difficile non avere le parole per far capire all’altro ciò che si prova, quanto deve fare male, non solo il dolore, ma anche l’impossibilità di comunicarlo.
È stata una strana nottata.
Sono uscita dal Pronto Soccorso alle 5.30 del mattino senza essere stata visitata, dopo aver espulso il calcolo (ahi) e aver finito le ultime pagine di In Patagonia, stanca e felice come dopo un lungo viaggio.
Z
Abbiamo iniziato la precedente newsletter con una domanda: “Cosa vi fa sentire liberi?”. E ci dispiace che proprio in quella domanda noi cactus non abbiamo usato un linguaggio inclusivo. Svista, errore nella correzione, in ogni caso, se come scrive Vera Gheno (Potere alle parole, 2019) “la vera libertà di una persona passa dalla conquista delle parole”, in questo caso siamo stat* meno liber* noi e meno libertà abbiamo riconosciuto a voi. E di questo vorremmo scusarci.
Che cos’è un linguaggio neutro dal punto di vista del genere?
È un linguaggio non sessista, inclusivo e rispettoso di ciascuna soggettività. L’intento è quello di evitare quelle espressioni che possano essere interpretate come di parte, discriminatorie o degradanti, perché basate su impliciti che apprendiamo dalla società ma nella quale non tutt* possono riconoscersi.
Perché ci teniamo tanto?
Cactus vorrebbe usare un linguaggio inclusivo affinchè chiunque ci legga possa sentirsi riconosciut* e vist*. Cactus si propone di parlare alle persone, a tutte, tutti, tuttu.
E se la lingua può influenzare e contribuire a plasmare la nostra esperienza e la percezione che abbiamo di essa, ancora di più le parole che usiamo sono fondamentali.
Il discorso è ampio, non si esaurisce in poche frasi, ma intanto ci teniamo ad usare ciò che è accaduto per condividere il nostro pensiero con voi. To be continued…