Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre.
Josè Saramago – Viaggio in Portogallo
Eccoci qua,
più puntuali della prima campanella scolastica! Torniamo dopo una breve pausa ristoratrice e ci auguriamo che anche voi abbiate avuto l’opportunità di staccare la spina (non le spine!) e ricaricarvi.
Da oggi la nostra newsletter torna a farvi compagnia, sempre ogni due settimane, sempre con i nostri e i vostri spunti di riflessione.
Ricordatevi che potete scrivere a cactus.psicologia@gmail.com per condividere con noi pensieri e suggestioni.
Buona lettura!
Cactus
– In copertina Tinho – Shinlin, Back to School China project, 2016 –
Nelle mie chiacchierate notturne con amici e conoscenti mi è capitato spesso che saltasse fuori l’immagine della grande cantina dove mettiamo tutto quello di cui non ci si può occupare o a cui non si vuole pensare. Se vi dico la cantina degli orrori a che pensate? Per farvela breve – in queste bizzarre chiacchierate notturne – salta sempre fuori che una cantina ce l’abbiamo un po’ tutti: non sappiamo più cosa ci sia dentro, è buio laggiù, però sappiamo che c’è. Forse ci sono delusioni, forse lutti, ricordi dolorosi, forse ci sono parti di noi a cui non badiamo da anni, hobby andati persi, amicizie chiuse improvvisamente, ricordi felici legati a persone che non sono più nella nostra vita. Ecco. Il guaio è che a furia di mettere le cose in cantina l’appartamento al piano superiore si impoverisce: insomma non posso tenere sul tavolo della cucina il centrotavola di nonna, perché nonna mi ha lasciata e adesso vederlo sarebbe troppo doloroso. Anche il centrotavola finisce in cantina e dopo un po’ me ne dimentico. Mi seguite?
Succede che un giorno, camminando per un mercatino, trovo lo stesso centrotavola. Come sto? E se lo vedo anche a casa della mia migliore amica e del mio capo e del vicino di casa?
Maledetto centrotavola! Avrà per me un effetto molto particolare: confortevole, intimo, familiare e allo stesso tempo spaventoso, terrifico. Come se quel centrotavola gridasse al mondo una cosa troppo intima, come quando sogniamo di essere nudi a scuola. Io l’ho messo in cantina e qualcuno l’ha preso e messo al centro del tavolo dell’affollatissimo punto ristoro dove vado in pausa pranzo.
Razza di centrotavola! L’ho già visto da qualche parte…ma dove?!?
Che effetto fa?
Freud lo chiamava unheimlichkeit, perturbamento: quello che proviamo quando viene mostrato ciò che era tenuto nascosto, negato; è un po’ un sollievo, un po’ una martellata in testa. Estraneo e familiare.
È il ritorno del rimosso. Quello che avevo messo in cantina me lo ritrovo sul tavolo della cucina. Sembra un corto di Paperino. O un film horror (ecco, a proposito di dualismo!).
Siamo ritornati. Eccoci di nuovo a settembre. Ecco che tutto quello che avevamo messo nella cantina buia torna a bussare alla porta. Quest’anno, per me, c’è Carmelo. Un vecchissimo amico che è venuto a trovarmi dopo tanti anni che gli davo appuntamento in cantina e poi nemmeno mi presentavo. Chissà com’è arrabbiato! Che faccio, apro?
Quelpostoche
Nel preciso istante in cui in Italia cominciava il lockdown, Antonio era su un aereo che l’avrebbe portato in Argentina, sua terra natale e luogo in cui ha poi trascorso i successivi sei mesi. Ho pensato che nessuno più di lui potesse essere un esperto in ritorni. Gli ho offerto un bicchiere e abbiamo chiacchierato per un pò.
Il senso del ritorno
Per ritornare – dice – innanzitutto si deve avere l’idea di un posto proprio. Parlare di ritorno ha due idee sottese: che ci sia un luogo che è casa e che ce ne sia almeno un altro. Il ritorno – senza questa dualità – non è un concetto pensabile. E’ legato al senso di appartenenza a un luogo o a un tempo, ma anche al fatto di averlo lasciato o passato. C’è molta malinconia, ma c’è anche spazio per la speranza.
Il luogo del ritorno
Ho la curiosità di chiedergli quale sia il luogo che sente come proprio. Mi anticipa raccontando che a volte come migranti è come se in qualche modo si perdesse la possibilità di tornare. Ti ritrovi a non sapere più a quale luogo appartieni. Ma è come se sentissi di appartenere a un dato posto in un determinato momento. A volte non ho chiaro dove desidero andare nè quale sia il luogo a cui appartengo. E forse una cosa è conseguenza dell’altra… Ma non ho ancora capito quale.
Tornare in avanti
Mi racconta che tornare a volte è come rincontrare i compagni delle scuole elementari, trovarli cambiati. Non sono più gli stessi che conoscevi, sembrano altre persone… Succede lo stesso con i luoghi e con i tempi. Torni in un posto che geograficamente è sempre lì, ma nel tempo diventa altro. E sei diventato altro anche tu. Sembra quasi che sia impossibile tornare, come se si potesse tornare solo avanti, non indietro. C’è una relazione tra tornare ed essere in divenire, dice.
L’eterno ritorno nietzschiano
C’è un senso di profonda solitudine nelle sue parole e mi arriva forte la fatica. Ho trovato molta forza nel concetto di Nietzsche dell’eterno ritorno che dice che siamo condannati a ripetere le stesse situazioni per tutta l’eternità e nell’adolescenza ho scoperto come. Lanciate due dadi, avrete diverse combinazioni. Poi le lanciate di nuovo e verranno fuori altri due numeri. Ipotizzando di lasciare questi due dadi per tutta l’eternità, sicuramente le combinazioni già apparse si ripeteranno. E non una volta, ma infinite volte. E allora se immagini che questi dadi siano le particelle dell’universo che si mescolano in diverse combinazioni, succederà nuovamente che il loro incontro creerà me, te e questa conversazione.
Mi lascia con un tango, Vuelvo al Sur di Astor Piazzolla.
Da quando ero una studentella mi ha sempre affascinata quell’area della psicologia che prova ad esplorare il rapporto fra persone e luoghi. Non so se perchè sono a mia volta una migrante con radici aeree anche io o forse semplicemente perchè mi emoziona osservare questo divenire.
East
Mentre il mio corpo veniva trasportato su un pullman della KTEL, le approssimative ma capillari linee extraurbane della Grecia, la mia mente si incistava imperniandosi su ossessioni e vecchi difetti, che come formazioni extraparlamentari di estrema destra rialzano sistematicamente la testa nei momenti di difficoltà.
Fermata all’autogrill. Concentrati sui tuoi bisogni – mi dico – e febbrile mi aggiro cercando qualcosa di cui potrei aver bisogno; dentro il bar niente, uscendo, d’impulso, chiedo una sigaretta a un ragazzo. Dopo un minuto siamo già dentro discorsi intimi. Tra di noi c’è confidenza, fluidità unita a un senso di urgenza. Lui sta tornando a vivere nel suo piccolo paese in cui è cresciuto dopo anni passati in Germania.
Lì ha trovato il lavoro, la stabilità e una società ordinata e accogliente, ma la ricerca del benessere economico lo stava logorando e si era reso conto che quello che lo avrebbe fatto stare davvero bene era nelle campagne dove era cresciuto.
Non stiamo cercando cose così diverse nel viaggio in cui ci siamo incontrati ed è immediatamente chiaro a entrambi; Kurt Vonnegut avrebbe detto che facciamo parte della stessa karass.
Risaliamo sul pullman, ma è quello sbagliato e me ne accorgo giusto in tempo per avvertirlo, scendere di corsa entrambi e salire su quello giusto.
Giunto alla mia fermata lo cerco per salutarlo ma non lo trovo, allora saluto genericamente tutto il pullman, dicendomi che lui, se esiste veramente, avrà comunque notato il mio gesto.
Non so bene cosa significhi, ma fino ad ora quella è l’ultima sigaretta che ho fumato.
Sono poi arrivato nella fattoria dove sperimenterò il nuovo, mentre la notte nei miei sogni ritorno indietro e sogno la mia infanzia, la mia adolescenza.
All’inizio è doloroso, ma lascio uscire quell’antica parte di me, me ne prendo cura, la consolo e allora veramente riesco ad andare avanti.
Dove sono realmente e dove sto andando non lo so, ma sento che tornare indietro mi pesa un po’ meno.
E con la morte nel cuore correrò per tornare
dove il giorno rivive sul profilo degli alberi.
Iosonouncane – Stormi
Larsen
Non escludo il ritorno.
Epitaffio di Franco Califano