Complesso è un miscuglio, un insieme di cose che possono essere anche molto semplici, ma che insieme generano qualcosa di nuovo e completamente diverso, da cui a volte non sai cosa aspettarti. Complicato è qualcosa di macchinoso e che non possiede nessuna logica interna.
Daniel Barenboim
Care lettrici e cari lettori,
da mesi la parola complessità fluttuava nell’aria intorno a noi, solo oggi è germogliata in questa newsletter. Sappiamo che si tratta di un argomento spinoso, quindi speriamo di non averlo reso complicato come dice il maestro Barenboim. Cactus
Per chi se la fosse persa, ricordiamo la campagna follow the ψ: a volte troverete nei testi il simbolo ψ/psi che vi indicherà degli approfondimenti teorici o scientifici a tema psicologico.
– In copertina Jean Dubuffet – La ronde des images, 1977 –
Secondo il dizionario di medicina Treccani il termine stereopsi indica la capacità visiva dei mammiferi superiori e dei primati di percepire la profondità dello spazio tramite meccanismi binoculari, ossia quelli che utilizzano informazioni provenienti dai due occhi.
Questa capacità ci permette di percepire immediatamente un’immagine come tridimensionale, tramite un rapidissimo meccanismo che consente al sistema nervoso centrale di percepire le differenze tra le immagini prodotte dai due occhi e di fonderle in un’immagine unica con caratteristiche di profondità.
…cioè vi permette, perché io non funziono esattamente così.
Dall’età di tre anni circa ho uno strabismo importante per il quale i miei occhi sono disallineati e guardano immagini talmente diverse che il mio cervello fa fatica a integrarle. Prima di mettere a fuoco un oggetto, un paesaggio, un volto, quindi, ho bisogno del tempo necessario ad esplorare con tutti e due gli occhi.
Il mio cervello ormai sa di dover ricevere due punti di vista diversi sulla stessa immagine e – per qualche frazione di millisecondo – li tiene entrambi per poi sceglierne uno ed escludere l’altro.
Questo fa sì che, prima di compiere il primo passo per scendere uno scalino, io rallenti, perchè mi serve più tempo per misurare la profondità e calibrare il movimento.
Cosa c’entra questo difetto di visione con la teoria della complessità nel mondo psicologico?
All’interno di una relazione terapeutica, quella frazione di millisecondo che sforza il cervello di uno strabico è di un’importanza vitale. La tridimensionalità non appare immediatamente, ma è come il risultato di una lunga esplorazione di più punti di vista.
Chi è l’altro? E’ un uomo o una donna? Da dove arriva? Qual è la sua storia? Quale la storia della sua famiglia? Con quali mondi ha relazioni? Quali sono i suoi valori? Come si posizionano questi valori all’interno dello scenario dominante? A quale universo socio-culturale appartiene? Come sta oggi?
E ancora… chi sono io? Come mi definisco? Come sto? Quanto arrivo scazzato oggi? Cosa ho letto ieri sera prima di andare a letto? Cosa mi incuriosisce?
E ancora… come stiamo noi insieme? E’ simile o diverso rispetto a come siamo sempre stati? Come ci siamo salutati l’ultima volta?
Come davanti allo scalino, prima di compiere un qualsiasi movimento ho bisogno di fermarmi un attimo trattenendo tutto questo. Sto nella vertigine per poter lasciare che l’immagine si formi, che io possa guardarla, misurare le distanze e compiere con fiducia il mio passo.
Forse per quest’attitudine a esitare, sono incline a detestare abbastanza la tendenza semplificatrice di quei filoni di divulgazione psicologica che vanno dalle cinque mosse per uscire da una relazione tossica, i dieci consigli per calmare l’ansia, le sei tecniche per ricominciare ad amarsi davvero. Più pensatori – tra cui Byung-Chul Han – sottolineano come la postmodernità abbia messo a rischio la nostra profondità a causa della perdita del tempo necessario ad attraversare le nostre esperienze e a costruirne una narrazione dotata di significato.
Le possibilità trasformative della psicoterapia vanno proprio nella direzione di poter restituire agli individui queste potenzialità attraverso la relazione.
Prendiamocene il tempo.
Eastita
ψ Il concetto di complessità è centrale nei testi del sociologo e filosofo francese Edgar Morin. Vicino alle teorie sistemiche, per il cui il tutto è più della somma delle parti, propone un’analisi dei fenomeni basata su una causalità non lineare per cui l’effetto agisce sulla sua stessa causa. Allo stesso modo, individuo e società tendono a influenzarsi reciprocamente.
C’è un uomo che ha basato la sua carriera professionale sulla semplicità, intesa come prodotto della complessità.
Bruno Munari – che a quanto pare ho conosciuto precocissimamente senza saperlo da bambina nei suoi prelibri – mi ha sempre affascinato per la sua estetica semplice, immediata e comprensibile a chiunque.
Non per niente, Munari definiva giusti i suoi oggetti e riteneva che questo fosse lo scopo finale del prodotto di design che ne giustificava l’esistenza.
Nel suo lavoro Munari puntava alla semplificazione dell’oggetto, ma solo dopo averne compreso profondamente il senso: non si trattava di un’operazione manieristica votata esclusivamente all’estetica – tant’è che i suoi oggetti sono vendutissimi (e utilizzatissimi) ancora oggi – ma di un lungo processo di studio volto alla riflessione sulla sua funzionalità e sulle sue potenzialità di utilizzo.
La semplificazione del design era dunque possibile solo dopo aver abbracciato la complessità dell’oggetto.
Un esempio eccellente è la presentazione di Abitacolo nel 1971 al MOMA di New York per la mostra Italy: The New Domestic Landscape.
“Abitacolo, alto due metri, è di acciaio con una pelle epossidica, è una struttura ridotta all’essenziale, uno spazio delimitato e anche aperto.
Abitabile da una o due persone. Può contenerne anche venti. Ma ciò non è consigliabile per la difficoltà dei movimenti. Pesa 51 chili. È largo due metri per 80 centimetri.
È un grande oggetto senza ombra. È un modulo abitabile. È un abitacolo. Contiene tutte le cose personali. È un contenitore di microcosmi. È una placenta di acciaio plastificato. Un posto per meditare. È contemporaneamente un posto per ascoltare la musica che piace. Un posto per leggere e studiare. Un posto per ricevere. Un posto per dormire. Una tana leggera e trasparente. Oppure chiusa. Uno spazio nascosto in mezzo alla gente. Uno spazio proprio. La sua presenza rende superfluo l’arredamento. La polvere non sa dove posarsi. È il minimo e dà il massimo. Numerato ma illimitato.
Abitacolo è l’ambiente adattabile alla persona dell’abitante. Trasformabile in ogni momento.”
[vi consigliamo di vedere Abitacolo dopo aver letto la descrizione]
A cosa serve un videogioco? Alcuni direbbero a divertirsi, qualsiasi cosa voglia dire, altri non si porrebbero nemmeno la questione. Everything ha le idee chiare su sé stesso: si definisce come una simulazione di realtà come fenomeno di sistemi interdipendenti. Ci sono migliaia di entità che percepiscono, pensano e interagiscono differentemente mentre sono guidate dalle stesse leggi soggiacenti. Ogni cosa è consapevole di sé, dell’altro e del proprio ambiente, ed è simulazione con o senza l’interazione con il giocatore.
(Prima che vi racconti di più, il mio consiglio è semplicemente di provarlo per mantenere intatta la meraviglia; in alternativa potreste iniziare dalla bella recensione di Errant Signal [in inglese!] o un qualsiasi trailer del gioco per darvi una idea di come si presenta)
Una simulazione è un videogioco che aspira a replicare aspetti più vicini possibili alla realtà, ma se vi avvicinate ad Everything aspettandovi una rappresentazione foto realistica rimarrete delusi: David O’Reilly, creatore del gioco e artista visivo, è conscio dell’impossibilità tecnica del totale realismo e allora prende un’altra strada e va alla ricerca del senso dell’interconnessione tra le cose. E per fare questo bisogna allontanarsi dalla crudezza del mondo come ci si presenta normalmente e guardarlo da un’altra prospettiva.
Everything, All At Once, Forever cantavano i Th’Faith Healers nel 1993, raccontando del sentirsi soverchiati da “ogni cosa, contemporaneamente, per sempre”.
Everything getta lo sguardo su una visione simbolica delle cose, mette il fuoco sui processi che avvengono tra esse e propone al giocatore e alla giocatrice una visione unica e speciale sull’universo, suggerendo loro di provare a diventare qualsiasi cosa: dai microorganismi alle palle da biliardo, dalle rocce ai continenti e alle galassie.
Si tratta di un’esperienza di gioco che è stata definita una meditazione guidata, accompagnata dagli inserti audio delle conferenze di Alan Watts, autore, filosofo e storico promulgatore in occidente di discipline orientali come il buddismo zen.
Una delle bellezze del videogioco è fornire una interfaccia alle tue fantasie ed Everything racconta l’essenza della complessità che permea le cose, un viaggio con su indosso le lenti dell’interconnessione del macroscopico con il microscopico.
Un gioco in cui puoi essere tutto e che finisce per farti sentire insignificante.
E farti piacere questa sensazione.
Larsen
Più diventiamo capaci di fare un passo indietro e abbracciare con lo sguardo la complessità dei problemi, maggiori sono le possibilità di trovare risposte semplici.
Con l’estrema semplicità di un TEDTalk di poco meno di 4 minuti, l’ecologista Eric Berlow mostra come l’approccio allo studio della natura potrebbe essere un ottimo spunto per ragionare sulla complessità del mondo.