Si sta vicini per fare miracoli, non per ripetere il mondo, che già c’è, che già siamo.
Franco Arminio
Il primo contenuto di questa settimana è stato scritto qualche tempo fa, quando si utilizzavano le sciarpe al posto delle mascherine. Ad oggi ci domandiamo se quelle sensazioni siano già entrate a far parte della nostra quotidianità.
– In copertina Edward Hopper, Nighthawks – 1942 –
L’altra mattina mi sono alzata di buon ora per andare a fare la spesa al mercato.
Ho dovuto costruire una nuova routine rispetto a questo: amuchina in tasca, guanti alle mani e sciarpa ben stretta al viso perché si, sono una di quelle che non è riuscita a trovare mezza mascherina nemmeno pagandola con la promessa di cedere il mio futuro primogenito.
Esco dal mio portone, giro a sinistra, sollevo la testa dalle mattonelle sconnesse di Roma e vedo poche, pochissime persone. E anche quelle poche persone che vedo mi sembrano più che altro degli alieni. Le mani sono bianche o azzurre, il corpo è totalmente coperto, le labbra, gli zigomi, il naso e il mento sono coperti da uno strato omogeneo di un colore spento.
L’unica cosa che mi ricorda di non trovarmi in un nuovo film di Steven Spielberg dove E.T. torna sulla terra sono gli occhi.
Arrivo al mercato e cerco di comunicare alla signora dietro banco della carne che vorrei 200 gr di petto di pollo.
Ma mi ha sentita? Con questa sciarpa che mi copre le labbra mi sente bene?
La fisso, ha anche lei le stesse sembianze degli alieni che ho incrociato – ad un metro di distanza, per carità! – qualche minuto prima durante il mio tragitto.
Nulla, non riesco a comprendere se mi ha capita, allora mi decido finalmente a guardarla negli occhi: vedo che si sono fatti più stretti di prima e la loro angolazione esterna punta verso l’alto e da lì partono delle rughe fino alle tempie. Finalmente riesco a capire che mi sta sorridendo!
Da quanto non guardavo fissa una persona negli occhi? Da quanto non comprendevo l’emozione dell’altro dal suo sguardo? E da quanto non guardo i miei stessi occhi allo specchio?
Quella sera nel mio letto mi sono chiesta se non stessi vivendo in una sorta di finzione, come se fossi in un programma televisivo dove tutti stanno recitando una parte. Ho pensato immediatamente al film “The Truman Show”, dove Truman è il protagonista inconsapevole di un reality show che va in onda da quando è venuto al mondo. Tutta la sua realtà è stata costruita per quel programma, tutte le persone della sua vita recitano una parte scritta da degli autori e tutte le sue scelte sono state implicitamente veicolate.
Ho visto per la prima volta questo film vent’anni fa e non avevo mai provato tanta empatia per Truman come adesso, in questo momento in cui il desiderio di dormire sta prendendo il sopravvento e l’unica cosa che riesce a calmarmi da questo pensiero è lo sguardo sorridente della donna al mercato.
Quello non poteva essere finto.
R.
Un incontro di due:
occhi negli occhi, volto nel volto.
E quando tu sarai vicino
io coglierò i tuoi occhi
e li metterò al posto dei miei
e tu coglierai i miei occhi
e li metterai al posto dei tuoi,
allora io ti guarderò coi tuoi occhi
e tu mi guarderai coi miei.
Jacob Levi Moreno –“Motto”, in Invito a un Incontro, 1914
Non avevamo mai pensato di darle un nome come “iperfamiglia” – come ha fatto Annalisa Camilli nel suo articolo – ma sono anni che ci confrontiamo su quanto siamo fortunate ad avere avuto la possibilità di incontrarci e di incontrare tutta una serie di persone che sono diventate rapporti fondamentali della nostra vita, di costruire appunto una “famiglia” altra, non di sangue.
Per questa ragione abbiamo deciso di scrivere congiuntamente questo breve pezzo: ci siamo “innamorate” tra i banchi dell’università, ci siamo scelte e abbiamo deciso di vivere insieme.
Abbiamo condiviso tante cose “fisiche” – la stessa stanza, lo stesso divano, lo stesso cibo – ma anche tante cose meno fisiche – pensieri, sensazioni, emozioni (tante).
Abbiamo smesso di vivere insieme a un certo punto: ora viviamo a più di 500 kilometri di distanza da ormai quasi 8 anni, eppure non smettiamo di sentire di essere una lo “split-brain” (n.d.r. corpo calloso resezionato) dell’altra.
La cosa incredibile però è che non è una magia esclusiva della nostra relazione: lo stesso progetto Cactus è figlio di un’iperfamiglia che si colloca tra Roma e Torino.
È nato in quarantena (dal giorno del mio (Q) compleanno festeggiato in tanti piccoli momenti su Zoom con pezzi di cuore sparsi nel mondo) ma è da un pezzo che fantastichiamo rispetto a quanto ci piacerebbe poter fare una riunione insieme dal vivo e di decreto in decreto speriamo che il prossimo ci dia il via libera (Regioni permettendo) per realizzare questo sogno.
Quando è uscita fuori la questione “congiunti” non abbiamo avuto grossi dubbi nel dargli un senso: i nostri affetti sono stabili, tengono botta di fronte a Erasmus e kilometri, di fronte a relazioni e convivenze. Resistono e sono carburante nelle nostre vite più di tanti altri rapporti “normati” dai decreti.
In questa quarantena io (Z) ho compiuto trent’anni e mi sono specializzata: pochi giorni fa ho ricevuto un biglietto (e un regalo) stupendo e – facendomi i conti – circa il 70% delle persone coinvolte vivono in un’altra città e non abbiamo rapporti umani dal vivo frequenti da tempo.
Inutile dirvi che ho pianto quando l’ho ricevuto, inaspettatamente.
Forse dovremmo porci delle domande al riguardo, forse dovremmo ripensare il concetto di famiglia. Forse non ci serve neppure un nome, anche perché – per parafrasare Eco – non è che smette di essere famiglia se la chiamiamo in altro modo. Tanto lei è in ogni caso: forte, resistente ai kilometri, alle crisi e ai cambiamenti, sempre e fortissimamente casa.
Z e Q
Le 7 cose che abbiamo scoperto (sulle relazioni) grazie al Coronavirus
– Ho imparato che non sono sola anche quando sono sola.
– Ho scoperto che sono introversa e che stare con chi amo, scarica le mie batterie.
– Ho scoperto che posso prendermi i miei tempi per fare le cose e che posso permettermi di non correre sempre da una parte all’altra senza che nessuno ne abbia danno.
– Ho scoperto che qualcuno da solo impazzisce. E io non voglio permetterlo.
– Ho finalmente capito che non sono le mura, i mobili e gli oggetti, ma le persone con cui vivi a fare il posto in cui abiti casa.
– Ho imparato a conoscere le voci, le abitudini, i ritmi, le gioie e i dolori della famiglia che vive vicino a me. E pure quelle dei loro amici e parenti in videochiamata. E pure i loro gusti musicali. Perché se i muri sono barriere, quelli di certe case torinesi lo sono un po’ meno.
– Ho imparato che ho molti vicini musicisti, che nel mio quartiere abbasso l’età media di almeno 30 anni e che la famiglia al piano di sopra possiede un elefante.
Cactus
In questi giorni di “rincontri” post quarantena dura, tornando dallo studio dell’analista con mascherina e rotoloni di carta sulle poltrone, ho avuto un insight: le relazioni umane hanno in sé qualcosa di disgustoso.
Tutte queste parole spese a descrivere le famigerate goccioline che tra persone ci si scambia quando stiamo vicini mi disgustano.
Il coronavirus mi ha insegnato che le relazioni umane implicano uno scambio di intimità, non solo emotivo!
Ma delle goccioline non ne so molto.
So però che nell’altro ci specchiamo, con l’altro ci confrontiamo, ci trasformiamo e questo implica uno scambio, una lieve perdita dei nostri confini.
Senza una vicinanza dei corpi, è possibile un’intimità affettiva?
Jung diceva che i rapporti umani si fondano su quanto è imperfetto, debole, bisognoso di aiuto e di appoggio.
Mi viene da fare un salto: le mie goccioline di saliva possono infettare qualcuno. A livello simbolico, nelle nostre vulnerabili menti, ciò può diventare: ciò che di difettoso, imperfetto, “malato” c’è in me, può nuocere all’altro e viceversa. L’altro può farmi ammalare.
Non cediamo: continuiamo a scambiarci goccioline psichiche l’un l’altro, nonostante la distanza fisica.
Quelpostoche
Ho spesso abusato della strofa del pezzo dei Cani “per me contano i dischi, i bagni nel mare, l’umanità” e in questo lockdown ho avuto la triste conferma di quanto sia vero, soprattutto per quanto riguarda l’umanità.
Parlando con una persona con cui non mi confrontavo da tempo, mi sono resa conto di quanto stia sentendo la mancanza non solo dei contatti umani con le persone con cui ho più o meno stabili relazioni (amici, colleghi, conoscenti) ma anche dei contatti umani “casuali”, con persone sconosciute che si sperimentano in tutti quei contesti affollati come locali e concerti.
Ho pensato a tutte quelle realtà intime come il Fanfulla al Pigneto, fatte di una clientela di aficionados che si basa sulla tradizione abruzzese “non te conosco ma te saccio” (n.d.t. non ti conosco personalmente, ma ho presente chi sei), caratterizzate da un inevitabile quanto stupendo assembramento sociale. E mi sono chiesta: torneranno mai? O questa esperienza – e la paura del contagio conseguente – le annullerà per sempre?
Mi è venuta una grande tristezza pensando che non so quando potrò tornare a cantare a squarciagola contro la schiena sudata di un tizio più alto di me a un concerto, a brindare come se fossimo vecchi amici con la coppia brilla che ha fatto la fila al bancone accanto a me, a improvvisare il balletto di Pulp Fiction in un locale con una persona che non conosco ma – hey! – questo pezzo ci emoziona entrambi.
Ho paura che tante cose per le quali penso che valga la pena vivere non le avrò mai più.
Poi sono incappata in questo sondaggio di Rock.it e con sollievo ho scoperto che il 50% (su quasi 15.000 persone) non vede l’ora che tornino i concerti dal vivo.
Forse non siamo condannati alla dittatura della distanza: forse potremo tornare a toccarci, tra sconosciuti, mentre assaporiamo ciò che di vitale certe esperienze ci offrono.
Ma credo che tutto ciò sia possibile solo a una condizione: il desiderare insieme, il cercare di affrontare ciò che ci spaventa, il non arrenderci all’idea che ciò che prima c’era di bello non è più raggiungibile.
In fondo, sono (anche) queste velleità a renderci felici.
Z
La musica è come la vita, si può fare in un solo modo, insieme.
Ezio Bosso