Due cose assolutamente opposte ci condizionano ugualmente: l’abitudine e la novità.
Jean de La Bruyère
Come ci spieghiamo l’energia del primo lockdown e la stanchezza di questo? Le seconde volte? Forse l’effetto della normalizzazione?
Un articolo di RivistaStudio su questo tema ci ha ispirat* per questo nuovo numero!
Cactus
Il mio analista in questi mesi continua a ripetermi che faccio finta di adattarmi, di abituarmi alla situazione, ma in realtà profondamente non è vero.
Dice che sono come una mensola di legno che, nonostante il peso dei libri, non si deforma, si flette leggermente ma quando uno toglie il peso torna perfettamente dritta.
Quando me lo dice io sono contenta, perché io a questa situazione non solo non riesco ad abituarmi ma non voglio abituarmi.
Non voglio abituarmi
agli aperitivi su Zoom
alle sedute su Skype
agli esami su Meet
ai webinar
agli eventi online.
Però mi ha fatto pensare che quella che io sento come una risorsa OGGI, non è necessariamente una risorsa nella vita normale – ANZI – ma soprattutto quando ci penso mi fa sentire triste.
Vengo da una famiglia in cui l’abitudine o la routine non sono di casa.
Non sono stata cresciuta nel caos più totale, una vaga idea di orari, rituali e consuetudini erano definiti, ma i miei genitori non sono mai stati amanti delle abitudini.
Certo, era divertente
tornare a casa da scuola e vedere che
i mobili erano in una posizione diversa da come li avevi lasciati la mattina,
così come ritrovarsi a mangiare cibo straniero a pranzo
senza sapere neppure gli ingredienti
o avere studenti universitari giapponesi a cena
o studenti universitari italiani che ti attendono fuori scuola
(entrambi mai visti prima).
Un po’ meno divertente era
cambiare casa o scuola più o meno all’improvviso,
non trovare mai le proprie cose
(perché considerate vecchie o inutilizzate dunque buttate)
o non sapere che cosa aspettarsi per regalo o come torta di compleanno,
nonostante i desiderata presentati a tempo debito.
Mettere questi due aspetti sul piatto per me è un po’ un allenamento, perché quando li vedo scritti mi rendo conto di come pesano in modo diverso, ma se li tengo nella mia testa il paragone non regge perché tendo a valutare molto più positivamente il cambiamento, l’imprevisto, la confusione rispetto all’ordinario, al prevedibile, alla routine.
Solo di recente ho iniziato a capire che abituarmi lo trovo troppo pericoloso: se una situazione mi piace e io mi abituo (e mi affeziono anche), quando la perdo rischio di perdere tutto; se invece non mi abituo non mi trovo impreparata al cambiamento, perché – hey – ci sono “abituata” e non ho niente da perdere.
Non ci vuole un analista per capire quanto sia rudimentale ed effimera questa difesa, ma per me è stata molto importante, quindi abbandonarla è difficile.
Forse in questo momento mi serve ancora un po’ per fronteggiare questo momento storico, ma tra le pareti della mia casa sto cercando di lasciarla andare e permettermi piano piano il lusso dell’abitudine.
Avere dei rituali condivisi, non inventare piatti nuovi ed esotici tutte le settimane, non dover stupire l’altro ogni giorno per forza (come se bastasse questo a garantire che non se ne andrà) ma abituarsi e creare delle abitudini perché è anche su queste che si costruisce una casa.
Abituarsi…
la prima cosa a cui penso è: incredibile quanto in fretta ci abituiamo alle cose più scomode!
In ordine penso a:
- lavarmi con la gamba fuori dalla vasca per non bagnare i punti della recente operazione (vi assicuro è scomodo!)
- trattenere il respiro quando mi spoglio davanti qualcuno a cui non oso mostrare la pancetta che ho messo su
- ignorare il catcalling
- i piedi freddi quando per pigrizia non mi va di andare a prendere i calzini nella cassettiera a pochi metri da me
- svegliarmi alle 6 quando lavoro a scuola e fare 1 ora e 20 di viaggio cambiando 3 mezzi
- stare in casa durante il lockdown
L’abitudine ci serve a evitare di imbatterci costantemente nell’imprevisto, nell’incontrollato, nel caos: ci orienta, ci contiene, ci rassicura, ci dà un senso di stabilità.
Nelle nostre routine possiamo riconoscerci: è un outfit comodo l’abitudine, sappiamo già come ci sta, sappiamo che effetto faremo agli altri…non è perfetto, ma conosciamo benissimo la macchia di ruggine sulla manica, il difetto che ci fa in vita il pantalone, sappiamo bene dell’orlo più corto e l’altro più lungo e sappiamo anche come fare a mistificare tutto questo, sappiamo farlo benissimo, l’abbiamo imparato.
In poche parole: ci abbiamo fatto l’abitudine.
Eppure ricordo con immensa vividezza le sensazioni
- della prima doccia dopo aver tolto i punti
- del momento in cui ho respirato a pieni polmoni nuda davanti a lui
- di quando ho risposto “ma cosa dici? Scusa ma ci conosciamo?” all’idiota di turno
- del sollievo quando copro i piedi gelidi
- delle domeniche senza sveglia dopo una settimana di lavoro
- dell’aria fresca sulla faccia.
Hamkety
Con il termine abituazione, in etologia e in psicologia, si intende la graduale diminuzione dell’attenzione e della risposta di un organismo a uno stimolo, a seguito del ripetersi dello stimolo stesso. L’abituazione è un processo assai diffuso nel mondo animale e persino vegetale […] ed è considerata dagli studiosi una forma elementare di apprendimento, in quanto comporta una variazione comportamentale seguita a esperienza e presenta molti aspetti tipici dell’apprendimento stesso […] Secondo alcune ipotesi si può parlare di coinvolgimento dei meccanismi dell’abituazione per spiegare alcuni comportamenti dell’uomo, per es. quando si impara ad apprezzare cibi che inizialmente apparivano disgustosi o a sopportare e addirittura non avvertire più forti rumori, odori e altri stimoli sgradevoli.
(Enciclopedia Treccani)
Nasciamo e cresciamo in una società in cui la violenza nei confronti delle donne è endemica.
Ognuna di noi si è trovata vittima di una qualche forma di sopraffazione per il fatto stesso di essere donna.
Catcalling, battute sessiste, apprezzamenti, discriminazioni, molestie, abusi.
E noi ridimensioniamo, minimizziamo, sopportiamo, ci adattiamo attraverso una vera e propria forma di apprendimento perché rispondere vuol dire mettersi in pericolo, così come può diventarlo esporsi.
Questo articolo racconta tutto questo e chiede ascolto.
Fermiamoci tutt*, leggiamo, ascoltiamo.
Q
Su questo tema abbiamo ricevuto e condividiamo con voi il questionario di un progetto di ricerca che si pone l’obiettivo di indagare il fenomeno dello dello Street Harassment o Catcalling, ossia l’insieme delle molestie verbali e non verbali – quindi anche fisiche – che avvengono ad opera di estranei nei luoghi pubblici.
Se vi va di compilarlo e contribuire alla ricerca, lo trovate qui.
Alzi la mano chi dieci anni fa giocava ai vecchi giochini in flash su Internet Explorer o i primi Firefox.
Solo io?
Beh, una caratteristica interessante l’avevano: erano facili da creare e molto veloci.
Ad esempio, per Every day the same dream sono serviti solo sei giorni di lavoro, ma all’epoca riscosse un certo successo, superando il milione e mezzo di partite effettuate.
Questa loro intrinseca semplicità spingeva i loro creatori non a perdere tempo a creare esperienze realistiche, ma a creare giochi dai concetti originali e che trasmettessero messaggi inusuali per il mondo dei videogiochi.
“tutto è una copia, di una copia, di una copia…“
Questo ha spinto siti come Molleindustria Games a proporre giochi dai contenuti sociali e politici, spesso satirici – sono ancora attivi e vale la pena dargli un’occhiata!
In Every day the same dream controlliamo con freccette e barra spaziatrice un anonimo lavoratore in un ufficio: assecondando i passaggi logici di vestirlo e andare a lavoro, il gioco riproporrà la stessa giornata come Bill Murray in Groundhog Day (ma molto meno divertente). Solo incuriosendoci e provando azioni fuori dagli schemi cominceremo a vedere incrinata la grigia normalità del nostro protagonista…
Every day the same dream è un reperto del passato, ma forse anche per questo vale la pena conoscerlo: clicca qui per giocarci.
Larsen