Quando non ti resta nient’altro imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra
Cormac McCarthy – La strada
– In copertina David La Chapelle – A new world. Hawaii, New World, 2017 –
Mattina.
Apro gli occhi, prendo il cellulare, spengo la sveglia.Mi giro, guardo il mio compagno che dorme e lo bacio.
Controllo le email, faccio mente locale sugli impegni e mi alzo.
Vado in bagno, mi lavo e mi vesto.Preparo il caffè anche se non lo bevo, preparo la colazione e apparecchio per due.Torno dal mio compagno, lo sveglio e gli chiedo se vuole fare colazione con me.Sono un po’ in ritardo, ma comunque ci sediamo a tavola e chiacchieriamo, pensando a cosa ci aspetta e a quando ci rivedremo più tardi.
Mangio, lavo i denti e scappo a lavoro.
Nell’androne del palazzo incontro il signore del piano di sopra, è una persona gentilissima, ci salutiamo anche se a distanza rammaricandocene, gli cedo il passo per entrare nel palazzo ed esco.
Salgo in macchina, collego il telefono e scelgo una playlist che mi dia una spinta positiva prima di buttarmi nel traffico, sono in ritardo, fumo una sigaretta per tranquillizzarmi mentre il semaforo cambia colore ma le macchine rimangono ferme.
Arrivo a destinazione, parcheggio ed entro a studio. Ho qualche minuto prima che arrivi la prima paziente: saluto la collega e ci raccontiamo delle strane vacanze imminenti, ci dispiacciamo insieme di non essere riusciti a organizzare un aperitivo di buone vacanze, ci prendiamo un caffè insieme e ci diamo un incoraggiamento reciproco per affrontare le ultime sedute prima delle vacanze.
Suonano al citofono, metto la mascherina e apro alla paziente.
Entra nella stanza, ci salutiamo sorridendo anche attraverso le mascherine, ci accomodiamo e iniziamo la seduta.
Dopo cinquanta minuti, le comunico che la nostra seduta è finita e che ci rivedremo a gennaio.Le auguro buone vacanze, e lei immediatamente si preoccupa perché dovrà dedicare le vacanze alla stesura della tesi e ha difficoltà ad andare via, le rinnovo che può telefonarmi se dovesse sentire il bisogno di parlare.
Si sente rincuorata all’idea, mi sorride, ci salutiamo ed esce.
Fine giornata.
Riprendo la macchina, torno a casa.Appena rientro il cane mi viene incontro e mi salta addosso, faccio finta di acchiapparla e lei corre contenta per casa.Arrivano le gatte, che si strusciano contro le mie gambe e annusano lo zaino, le gratto le testoline e le code a turno e mi rispondono “meowrrr meowrrr”.Trovo una cena buona preparata con amore e una birra: rituale bellissimo di quando finisco tardi a lavoro.
Mangiamo sul divano guardando una serie.Dopo aver finito di mangiare mettiamo via i piatti e ci abbracciamo.
Io mi addormento puntualmente senza preavviso.
Mi sveglio rendendomi conto dell’orario e vado a letto.Quando lui arriva a letto io spesso sto già dormendo, mi abbraccia, dico qualcosa nel dormiveglia e abbracciati torniamo a dormire.
Senza rituali che giornata sarebbe?
Esattamente uguale, al netto delle frasi sbarrate.
Senza rituali può esistere il mondo, ma sarebbe un po’ più triste (perlomeno il mio).
I rituali mi piacciono, mi aiutano a rappresentare il tempo che passa e a dargli senso.
Mi permettono di dare una forma a come sto e cosa penso. Mettere in atto un rituale è un po’ come dare valore a pensieri ed emozioni, proteggendoli da eventuali squalifiche da parte di altri. Non possono dirmi “quello che pensi/senti non ha senso” (guarda lo sto facendo..prrrr!).
Ne ho alcuni del tutto personali: il caffè al mattino accompagnato da una canzone, la skincare serale nei giorni di ciclo mestruale, la preparazione di un dolce nelle domeniche invernali.
I rituali sono una forma di linguaggio della società, aiutano a dare senso ai grandi temi che caratterizzano la vita umana, scandendone i tempi e tracciandone i confini.
Quelli socialmente promossi ci sostengono nel difficile compito di attribuire un significato a ciò che ci succede aiutandoci ad accettarlo, pensarlo, comunicarlo e condividerlo.
I rituali ci aiutano a organizzare la marea di esperienze che attraversiamo nel corso della vita.
Che ruolo hanno avuto i rituali nel corso di questi mesi a dir poco bizzarri?
Negli anni ‘90, Earl Hopper – psicoanalista, gruppoanalista e sociologo – ha parlato di inconscio sociale e degli effetti profondi che i sistemi sociali, culturali e comunicazionali hanno sulle persone in termini transpersonali: cioè ciò che succede alla società e i suoi sistemi di significazione si radica tra le persone, nelle persone, al di là delle persone e al di là della loro capacità di pensarlo.
Questi sistemi esistono e ci influenzano, ci trasformano e noi a nostra volta influenziamo e trasformiamo loro, in un dialogo continuo.
Quando un trauma (come la pandemia) attraversa un sistema sociale, ci sentiamo impotenti, frammentatз, angosciatз e sentiamo il bisogno di collanti che ci facciano sentire aggregatз, per combattere la paura di disintegrarci!
Hopper può aiutare a capire un po’ meglio quanto successo alla società alle prese con la pandemia da Covid-19: durante il primo lockdown ci siamo imbattutз nella profonda paura di disgregarci e l’abbiamo affrontata elaborando nuovi rituali.
Hopper ci dice anche che in caso di trauma sociale tende a emergere dallo sfondo ciò che sta alla base di quella società: a questo punto divertitevi a fare qualche riflessione sui rituali che noi italianз ci siamo inventatз in tempi di lockdown…pare che proprio al loro interno si celino le basi della cultura italiana!
Vi dò il LA, ricordandovene giusto un paio: vi dicono niente le schitarrate dai balconi e la produzione di pane/pizza/dolci di ogni tipo? Ve ne vengono in mente altri? Continuate voi!
Quelpostoche
*ə (з al plurale): simbolo dello schwa o scevà (nome italianizzato) una piccola e rovesciata che ha un suono neutro e che sta tra A, E, I, O, U; corrisponde al suono che si emette se non si deforma in alcun modo la bocca. L’utilizzo dello schwa nasce dal tentativo di costruire un linguaggio più inclusivo che permette di parlare di tuttз senza escludere nessunǝ.
Per maggiori info cliccate qui.
Sono diventato psicoterapeuta e non l’ho ancora ben realizzato: non do tanto peso alla cosa, non ci penso.
La vita sembra andare avanti come prima, ma so che sto evitando qualcosa – forse anestetizzandomi – ed avrebbe senso.
Suppongo che sia nel riconoscere valore alle cose che prende forma la sensazione della perdita.
E questa è la prima teoria su quello che mi sta succedendo.
La seconda è che l’esame finale è stato un rito soddisfacente.
Quella di psicoterapia è una scuola di specializzazione: quattro anni post-laurea che ci si può immaginare come una sequela di concetti da imparare intervallata da momenti di verifica. Certo, c’è anche questo, ma è il livello di coinvolgimento provato in questi anni – come professionista, essere umano e membro di un gruppo – con cui ho condiviso ancor più del normale (anche e soprattutto fuori dai weekend intensivi)che faccio fatica a descrivere.
Nella formazione si impara tutto attraverso la pratica all’interno del gruppo, seguendo il principio che lo strumento principale del terapeuta è se stesso con il suo mettersi in gioco totalmente.
Per questo bisogna viaggiare leggeri, spogliarsi più possibile delle proprie aree d’ombra, oppure conoscerle e saperle usare.
Non è stato un percorso normale, ma importante, trasformativo, essenziale. Insieme abbiamo condiviso spazi ed esperienze, ci siamo detti a vicenda cose che a malapena ammettevamo a noi stessi. Non ci siamo solo visti crescere ma siamo cresciuti insieme, affrontando i mostri, e – a volte – sconfiggendoli.
Questo percorso per finire aveva bisogno di un rito.
Sono stati anni meravigliosi, ma anche carichi di sofferenza, condivisa e manifestata tra di noi.
Ognuno ed ognuna è stata testimone dell’altro: non mero oggetto passivo ma specchio e attore della trasformazione altrui.
Come in un frattale il weekend stesso conteneva in piccolo tutto ciò che ci ha riguardato come gruppo in questi anni: concentrato ma chiaro, limpido, digeribile, affrontabile.
Non ci aspettavamo bocciature: ci siamo presi cura dei problemi prima.
Non ci aspettavamo grandi illuminazioni: abbiamo già sviscerato tra di noi tutto quello che ci era dato aprire ed affrontare.
Il processo era già in atto e lo è sempre stato, ma allo stesso tempo siamo usciti dal weekend diversi da come siamo entrati.
Abbiamo un’etichetta e uno status diverso – quello di terapeuta, certo: l’esame è stato un rito di passaggio.
Ogni processo ha bisogno di cura nella sua fine, altrimenti il rischio è quello di buttare via tutto ciò che si è fatto prima, per quanto buono, come in un bel film dal finale deludente.
Abbiamo celebrato la gioia e il dolore degli anni passati insieme, circondati da un senso di apocalisse in questo Dicembre pieno di paura per il futuro; ma noi della nostra sofferenza ce ne siamo fatti qualcosa, è servita a qualcosa.
Chissà quanti popoli ancora in questa parte dell’anno varcheranno file di fuochi per festeggiare la rinascita, l’eterno e inesorabile ciclo di rinascita e caduta. E anche noi, nel nostro piccolo, un poco l’abbiamo fatto.
Francesco
“Esiste un rituale per ogni evento fondamentale, i riti di passaggio, il corridoio magico in cui avviene il cambiamento. Comprare i preservativi. Stare davanti al prete. Alzare la mano e fare il giuramento. O, se preferite, camminare lungo le rotaie della ferrovia per andare incontro a uno della vostra età, lo stesso che se mi fossi avviato per Pine Street per andare incontro a Chris se lui stava venendo a casa mia, o che Teddy si fosse avviato giù per Gates Street per venirmi incontro se io stavo andando da lui. Sembrava giusto farlo in questo modo, perché il rito di passaggio è un corridoio magico e perciò ci mettiamo sempre una corsia, che è quella che percorri quando ti sposi, quella lungo la quale ti portano quando ti seppelliscono. Il nostro corridoio erano quei binari gemelli, e ci camminavamo in mezzo, andando avanti verso qualunque cosa potesse significare.”
Stephen King – The body