[il buon Sandor guarda con sguardo dubbioso il gentile Maestro Freud]
“Fail again, fail better” recita Beckett in una sua poesia e ben rappresenta lo spirito con cui accogliere e celebrare il compleanno postumo dello psi del giorno.
Tanti auguri di cuore a Sandor Ferenczi che dai suoi 149 anni ci fornisce con la sua carriera e la sua esperienza un insegnamento validissimo e di grande ispirazione: che si può sbagliare e che gli errori possono essere una grandissima spinta alla conoscenza.
Facile – direte voi.
Insomma – vi risponderebbe un contemporaneo del buon Sandor – che ebbe il coraggio di parlare esplicitamente di alcuni suoi casi in cui riteneva di aver sbagliato (con tutte le riflessioni di seguito maturate) in un intervento in occasione del Congresso dell’Associazione psicoanalitica internazionale a Wiesbaden nel Settembre 1932.
Immaginatevi di essere solə, di fronte a una platea di eccellenza e con grande candore parlare dei vostri errori arrivando a trarre delle conclusioni abbastanza coraggiose e contrastanti rispetto a quella che era la teoria egemone, dicendo praticamente: io ho sbagliato, ma forse stiamo sbagliando un po’ tuttз.
Anche il tema non era proprio di aiuto: la riflessione di Ferenczi mette in discussione la teoria freudiana sull’eziopatogenesi della nevrosi (dal 1906 si parlava di fantasie di seduzione inconsce) suggerendo di ascoltare con più attenzione le pazienti isteriche (che all’epoca – ca va sans dire erano ovviamente solo donne) nella narrazione di tutti quei piccoli accadimenti insignificanti e ripetuti: per primo pone l’accento sulla valenza traumatica di aspettative genitoriali, attribuzioni, fraintendimenti, che appartengono alla relazione infantile con i genitori, e che quindi no, non sono fantasie delle fanciulle borghesi.
Potete immaginare la bomba: l’articolo, presentato privatamente a Freud poche ore prima del Congresso, fu la causa di una rottura violenta tra i due, legati da un intenso rapporto di amicizia e stima dal 1908.
Ferenczi (che comunque è sempre utile ricordare che definiva se stesso enfant terrible della psicoanalisi) decise di leggerlo ugualmente (nonostante Freud gli avesse detto più o meno “ti prego non abbandonarti al thanathos, lo dico per te, tornatene a casa e andrà tutto bene”) gelò l’audience, abbandonò il Congresso e se ne tornò a casa sua a Budapest.
[n.d.a. sei mesi dopo morirà a soli 60 anni senza aver più rivisto Freud da quel giorno… :’(]
Quello del buon Sandor non era solo un gesto provocatorio da enfant terrible alla società psicoanalitica ma il prodotto di una finissima riflessione teorica e tecnica che richiede un passo indietro.
Osservando le ripetizioni quasi allucinatorie delle esperienze traumatiche che sperimentano i pazienti in seduta Ferenczi si rese conto della peculiare percezione che i pazienti avevano dell’analista in queste fasi estremamente delicate della terapia e si chiese se ci potesse essere un senso più ampio dal momento che diversi pazienti gli comunicavano di sentirlo freddo, insensibile, senza riguardi per la loro sofferenza, a tratti persino crudele (considerate che Freud diceva di lui che aveva un atteggiamento “troppo materno”, quindi era un fenomeno quantomeno bizzarro…).
Questo lo portò a metter in discussione uno dei punti cardine del setting analitico, cioè l’opacità dell’analista (nella concettualizzazione freudiana classica l’analista per il paziente doveva essere come uno “schermo bianco”, come uno “specchio”, per mostrare al paziente solo – o prevalentemente – la sua “immagine riflessa”): ipotizzando che possa in alcuni momenti della terapia essere un’esperienza ritraumatizzante per il paziente, e in ultimo – da vero scienziato – fece un grande e coraggioso salto: si trova ad ammettere l’errore con alcuni di loro, operando una vera e propria rinuncia a questa ipocrisia professionale.
Il risultato fu sorprendente: questa rottura del setting anziché ferire i pazienti li fece sentire sollevati.
“L’ammissione dell’errore è valsa all’analista la fiducia del paziente”, commentò Ferenczi.
Perché parliamo di Sandor ancora oggi e forse un po’ troppo solo tra addettз ai lavori?
Ferenczi dà il via, in modo inconsapevole, alla questione molto attuale della self-disclosure, leggasi QUANTO COME E QUANDO è OPPORTUNO DIRE QUALCOSA DI Sé AI PAZIENTI. Si tratta di un dibattito sulla teoria della tecnica, ma anche di un dibattito interno profondamente sentito da tutti i giovani terapeuti alle loro prime esperienze: quanto di sé si può raccontare a un paziente? È giusto imporre il lei a un paziente che invece si rivolge a noi dandoci del tu? Quanto può essere pericoloso mostrare la nostra partecipazione emotiva al racconto dell’altro? Per chi è alle prime armi quella che Ferenczi chiama “ipocrisia professionale” è una vera e propria armatura necessaria per proteggersi dalle proprie paure e vulnerabilità, quando ci si trova davanti al paziente.
La delicatezza e l’onestà intellettuale con cui Ferenczi illustra la sua rinuncia a questo apparato, in favore della costruzione di una fiducia “reale” nella relazione con il paziente, penso che siano un insegnamento fondamentale per i giovani psicoterapeuti, che può aiutarli a fidarsi di più delle proprie emozioni e risorse che molto spesso vanno a colmare le lacune generate dall’inesperienza.
Quindi in questo 7 Luglio portiamo i nostri migliori auguri e grazie al nostro Sandor, che ci ricorda dopo tutti questi anni a conservare un equilibrio dinamico tra il dubitare e del fidarsi di sé, con creatività e flessibilità!